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17 aprile giornata del prigioniero politico, si chiude settimana di mobilitazioni internazionali

 

Nei Territori Palestinesi Occupati sono state molteplici le mobilitazioni nella giornata del 17: fuori dal carcere militare di Ofer (vicino a Ramallah) attivisti/e hanno tagliato pezzi del muro di recinzione attorno alla prigione; a Ramallah una grande manifestazione ha ricordato le migliaia di palestinesi detenuti/e nelle carceri israeliane, arrestati/e arbitrariamente, mantenuti/e in condizioni disumane e logorati con torture. All’attuale, fra i circa 4.800 detenuti sono oltre 200 bambini. L’associazione Addameer in appoggio ai diritti dei prigionieri ha lanciato il 17 aprile una campagna per abolire la detenzione amministrativa, accolta con iniziative in oltre 70 paesi. Oggi sono 4 i prigionieri palestinesi in sciopero della fame, fra i quali Samer Issawi, in sciopero della fame intermittente da circa 8 mesi e oggi in gravissime condizioni di salute.

 

In Euskal Herria, a Bilbao, centinaia di persone si sono riunite in un presidio per sostenere i/le prigionieri/e politici/che euskadi, ma anche per manifestare la propria solidarietà internazionalista ai prigionieri politici di tutto il mondo. Al febbraio 2013 erano 613 i/le prigionieri/e politici/che baschi/e, di cui solo 8 detenuti in carceri di Euskal Herria: il resto si trova disperso in 47 carceri spagnole e in 29 francesi, a una distanza media di 600 km dalle loro famiglie (a volte anche oltre 1000 km). Solo due giorni dopo a Donostia (San Sebastian), 6 giovani sono stati arrestati con l’accusa di appartenere all’organizzazione giovanile basca illegalizzata Segi. Oltre alla solidarietà immediata delle centinaia di persone presenti che ha impedito per ore alla polizia autonoma basca di raggiungere fisicamente i giovani, nella stessa serata un fiume di persone ha invaso le strade della città. Il caso di Lander Fernandez palesa l’arroganza dello stato spagnolo nel reprimere i/le baschi/e anche fuori del paese; oggi agli arresti domiciliari a Roma, Lander è in attesa della decisione della Corte di Cassazione rispetto alla richiesta di estradizione.

 

Anche in America Latina alcuni paesi hanno ricordato il significato di questa data con manifestazioni: ancora in una prospettiva internazionalista, il 17 aprile a Buenos Aires centinaia di manifestanti hanno bloccato la centralissima calle Corrientes, mentre lo scorso 10 aprile varie città dell’Argentina meridionale e del Cile hanno espresso la propria solidarietà con i prigionieri politici Mapuche in lotta contro l’espropriazione del proprio territorio e delle sue risorse naturali. In Messico si è conclusa ieri con due partecipatissime manifestazioni, una a Tuxtla Gutierrez (Chiapas) ed una a Città del Messico, un’intera settimana di mobilitazioni dedicate ai prigionieri politici soprattutto del Chiapas, con un’attenzione particolare al caso emblematico di Alberto Patishtán Gomez. Il “professore”, come viene da sempre chiamato, è detenuto nelle carceri messicane da 13 anni, accusato di un delitto che non ha commesso. Indigeno tzotzil, socialmente attivo già all’interno della propria comunità, ha continuato all’interno del carcere a lavorare per generare consapevolezza sull’istituzione carceraria, e il collettivo Solidarios de la voz del Amate di cui è integrante è oggi composto da altri/e prigionieri/e che sono più esattamente “politicizzati”, ovvero persone che hanno maturato la propria coscienza politica successivamente alla detenzione. Simboli evidenti di un sistema-stato che incarcera i più poveri, spesso gli e le indigeni/e, per fargli pagare delitti che non hanno commesso quando c’è bisogno di un capro espiatorio, approfittando delle umili condizioni economico-sociali e del fatto che non parlino la lingua ufficiale del paese.

 

Tutti i casi di detenzione politica, in qualsiasi paese del mondo, ci ricordano di come il carcere sia a ogni latitudine uno strumento per mettere a tacere la voce di coloro che lottano per un mondo di dignità e giustizia sociale. Un dispositivo di controllo profondamente razzista e classista in cui, come ci ricorda Noam Chomsky, questi casi di “ingiustizia” – Alberto Patishtán, Mumia Abu Jamal, e tutt* gli/le altr* – non rappresentano gli “errori” di un sistema di giustizia che in questi casi non sta funzionando; al contrario, il sistema sta funzionando benissimo, perché proprio a questo serve la (loro) “giustizia”. Ben consapevoli di questo, ma lontani e lontane dal perdere la determinazione, non dimentichiamo neppure i compagni e le compagne oggi detenuti/e in Italia: in attesa di giudizio o sentenziati a condanne di anni per per aver difeso il futuro di tutt* o il territorio dalla speculazione capitalista, con capi d’imputazione ridicoli come devastazione e saccheggio; mentre assassini in divisa e governanti strozzini godono della libertà, continuando indisturbati a svolgere il proprio ‘lavoro’.

 

 

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