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8 marzo 2020. Una data dalla quale ripartire.

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È da poco passato l’8 marzo, giornata dalla profonda e forte carica rivoluzionaria per la sua potenza a livello globale, per la radicalità delle sue rivendicazioni, per la limpidezza delle sue pratiche: scioperare perchè se si fermano le donne si ferma il mondo. Quest’anno la situazione mondiale emergenziale prodotta dal diffondersi del coronavirus ha cambiato, almeno per una parte di mondo, le possibilità di rapportarsi alla lotta. È un evento inedito che lascia senza strumenti e senza troppa speranza nel domani. La poca chiarezza delle informazioni, l’arbitrarietà dei dispositivi messi in atto per bloccare l’epidemia, la reale difficoltà di fermare un’intera società sono degli evidenti ostacoli all’organizzazione collettiva e dal basso. È importante sottolineare come di fronte a questo appuntamento mondiale ci siano già state delle risposte e dei ragionamenti, che pensiamo sia fondamentale raccogliere e iniziare a farne patrimonio condiviso per attrezzarsi davanti a ciò che ci aspetta.

Innanzittutto, la differenza tra i paesi dell’America Latina e i paesi europei rispetto alle possibilità e alle pratiche di queste giornate dell’8 e del 9 marzo è palese. Alle nostre latitudini, la notizia delle imponenti manifestazioni in termini di numeri e di determinazione che hanno attraversato le strade di numerosi paesi al di là dell’Oceano, non è stata coperta se non da qualche sparuto articolo. Dal Cile, alla Colombia, all’Ecuador, si sono organizzate marce e cortei contro il sistema patriarcale in cui annega la società capitalista tutta. In Brasile l’attacco a Bolsonaro e alla sua politica fortemente antifemminista, razzista e xenofoba ne ha caratterizzato le piazze, in Messico si sono ricordate Ingrid Escamilla e la piccola Fatima per lottare contro i femminicidi che quotidianamente avvengono nel paese, in Argentina ancora una volta si mette in luce la necessità primaria della lotta per l’aborto sicuro. Il 9 marzo è stato poi il giorno in cui lo sciopero si è reso materiale e pratico: le donne si sono fermate, il 57 % della popolazione non ha lavorato nelle scuole, negli uffici, nei servizi, nelle aziende. “Undiasinnosotras”, è qualcosa di profondamente sconvolgente.

Le rivendicazioni che uniscono milioni di donne in tutto il mondo come l’aborto sicuro e legale, come le condizioni di salario e reddito, la tutela delle risorse naturali e la difesa della terra, la possibilità di accedere alle cure e all’istruzione in maniera pubblica e gratuita sono in realtà oggi più che mai la prova che guardare al funzionamento del sistema capitalistico come una macchina che si basa sullo sfruttamento dei soggetti considerati subalterni per razza e genere, sia l’unica lente possibile. Mostra come la lucidità di queste rivendicazioni sia alla base di una possibilità di riorganizzazione della società che in questo momento di crisi emergenziale svela senza precedenti le contraddizioni su cui poggia. Se i dispositivi attuati per l’emergenza sono evidentemente lacunosi è anche perchè rivelano le condizioni sociali, economiche, lavorative di una normalità che già di per sè è profondamente sbagliata ed è quella contro la quale i movimenti, in particolare i movimenti femministi, lottano.

In Italia il movimento Non Una di Meno nei giorni precedenti all’8 e 9 marzo si è lungamente interrogato su come affrontare e come porsi in questo momento di lotta nell’emergenza. Alla base dei ragionamenti in molti nodi della rete di Nudm ci sono la tutela di ciascuno e ciascuna, il rispetto per i soggetti più a rischio e la capacità di vedere chi paga i costi di questa nuova crisi, ossia le donne e le lavoratrici. In molte città si è optato per annullare gli eventi pubblici, provando a immaginare nuove pratiche per stare insieme senza alimentare il possibile contagio, con la consapevolezza che le misure adottate dalle varie ordinanze su scala regionale non fossero sufficienti nè le uniche possibili.

Sono particolarmente significativi alcuni passaggi di un testo pubblicato dalla rete Nudm e che riportiamo qui

Nelle regioni in cui le ordinanze hanno imposto la chiusura delle scuole, migliaia di lavoratrici hanno perso il salario o ricevuto salari ridotti. Alcune perché insegnanti precarie, molte perché sono rimaste a casa con i/le bambin/e, o le persone anziane o malate più esposte agli effetti del virus.

Da settimane, le operatrici sanitarie e le infermiere lavorano senza sosta a parità di salario. Le lavoratrici domestiche e di cura, soprattutto migranti, assumono una quota significativa del rischio sanitario in cambio di salari da fame, le lavoratrici dei servizi di pulizia fanno turni sfiancanti per garantire l’igiene di ambienti pubblici e privati. E, tra di loro, ancora di più chi è migrante e sconta il ricatto del permesso di soggiorno legato al lavoro. In contemporanea alla chiusura delle scuole, il telelavoro e “smartworking” è stato presentato di volta in volta come soluzione obbligatoria o consigliata, in ogni caso sempre la migliore.”

I tagli decennali al welfare e ai servizi, il sovraccarico del lavoro di cura e di riproduzione sociale completamente affidato alle donne si manifestano in tutte le loro conseguenze in questo momento. Il rischio di numerose donne di vedersi confinate a casa obbligate a condividere lo spazio vitale con conviventi violenti, dai quali ci si vorrebbe separare, è presente e si fa più vivo di ora in ora. I tagli alla sanità pubblica in favore della sanità privata hanno un costo ancora più evidente e ancora più specifico per determinati soggetti ora più che mai. L’intenzione di rendere visibili queste contraddizioni, la narrazione di ciò che sta succedendo a partire da uno sguardo di genere e la volontà di continuare a lottare è ciò che il movimento femminista ci insegna oggi.

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