Anni ’20: Finance mode ON
In futuro, gli anni ’10 saranno probabilmente ricordati come un’efficace operazione di impoverimento di massa causata dai mercati finanziari (crisi 2007-08) al fine di arricchire e potenziare la stessa sfera finanziaria.
Sembrano già tempi lontani, quelli dei mea culpa di circostanza della politica globale che confessava le eccessive ombre e l’assenza di regole nell’apparato finanziario.
Le fondamenta delle economie ‘occidentali’ hanno tremato ma non sono crollate.
Gli Usa, epicentro del terremoto, responsabili politici e primi beneficiari dell’espansione finanziaria neoliberista, sono riusciti a condividere il costo della speculazione e del crack immobiliare con i ‘junior partner’ europei. Forti del ruolo ‘egemonico’ del dollaro, che nel caos globale diviene ancor più punto di riferimento e luogo sicuro per i capitali, sono riusciti a indirizzare le tensioni e la sfiducia sull’euro mettendo in discussione la solvibilità dei debiti pubblici di parte dell’eurozona.
È l’inizio dell’‘austerity’, della stagione lacrime e sangue che in Italia porta il nome del Job Act, della Legge Fornero, dei tagli lineari ai bilanci della sanità, dei beni culturali, dell’istruzione, per arrivare ai salari e ai consumi bloccati e all’accettazione di una disoccupazione strutturale intorno al 10% con quella giovanile che viaggia tra il 30 e il 40%.
Se si pensa a quanto abbiamo perso, guardare indietro alla decade trascorsa fa male.
Mentre i politici e i partiti organizzano ‘la socializzazione dei costi’ della crisi, la ‘plutocrazia’ finanziaria riorganizza la propria accumulazione, proiettandosi verso guadagni mai raggiunti, dilatando una polarizzazione della ricchezza che si traduce nell’aumento delle disuguaglianze su scala nazionale, regionale e globale.
Loro, i ricchi, ricorderanno gli anni ’10 come l’ennesima ‘belle époque’, altro che crisi.
Per comprendere il ‘successo’ della ristrutturazione economica post-crisi e la riorganizzazione dell’accumulazione finanziaria è utile osservare tre processi: immissione di moneta nel sistema, crescita smisurata dei listini finanziari e stallo dell’economia materiale sono i trend macroeconomici cardine di questo decennio. Andiamo in ordine.
Il 2010 si apre con le maggiori banche centrali mondiali (Usa, Giappone, GB e Cina) che promuovono politiche monetarie fortemente espansive (aumento di liquidità, Quantitative Easing, QE) al fine di restituire fiducia ad un mercato globalizzato che sperimenta la recessione più profonda dal 1929.
La BCE inizia con più ‘cautela’, avviando operazioni di rifinanziamento a lungo termine che la espongono finanziariamente ai suoi massimi storici, ma solo dal 2015 si è arrende al QE, erogando circa 3000 miliardi di euro tra il 2015 e il 2019.
Cosa hanno prodotto bassi tassi di interesse (costo del denaro) sulla possibilità di contrarre debito? Dove si è allocata questa ‘nuova moneta’? Negli stessi mercati finanziari e immobiliari, le cui bolle erano state la ‘causa’ della ‘Grande Recessione’ 2007-08.
È necessario spendere qualche parola sul meccanismo di allocazione di questa ‘nuova moneta’ e sul perché essa si incanala nell’impianto bancario-finanziario non stimolando l’economia ‘reale’.
La ‘nuova moneta’ entra nel sistema attraverso le banche private (o semi-private o semi-pubbliche, cambia poco ai fini di un approccio sistemico), le quali, forti della liquidità centrale alle spalle, hanno la possibilità di acquistare massivamente titoli di stato (o rinnovare l’acquisto di titoli in scadenza) o titoli finanziari aumentandone il prezzo e abbassando i tassi di interesse degli stessi.
Più si acquista, più un titolo viene considerato sicuro, più è sicuro minori sono i suoi tassi di interesse. BCE e sistema bancario europeo riescono contemporaneamente a bloccare l’ascesa dei tassi di interesse dei debiti pubblici sovrani e costruire una lavatrice per i miliardi di euro contenuti nelle loro pance sotto forma di titoli inesigibili (NPL: Non Performing Loans).
La teoria degli economisti mainstream vorrebbe che, ‘curato’ il sistema bancario, questo abbia la possibilità di erogare denaro a basso costo così da far ripartire investimenti e, diminuendo la quota di debito delle famiglie, si stimolino anche consumi.
Peccato che ne consumi ne investimenti siano ripartiti come la loro ‘teoria’ vorrebbe, infatti, l’unica dinamica ascensionale si registra nei mercati finanziari imperniati sulla vecchia New York, ed è così che alla fine del 2019 Nasdaq, Dow Jones (NY), la borsa di Tokyo e quella di Milano (Ftse Mib) registrano i record dei propri listini.
La dinamica economica che fotografa perfettamente questa crescente biforcazione tra dimensione materiale e finanziaria sono le crescenti disuguaglianze.
Nella decade di crisi, il 10% più ricco del pianeta ha visto aumentare la propria ricchezza nei confronti del 90%. All’interno del 10% più ricco, spicca la capacità dell’1% di distanziarsi notevolmente dal 9% che lo segue.
L’economia globale è sostanzialmente bloccata in una persistente ‘crisi di sovrapproduzione’ determinata dalla capacità dei capitalisti di trasferire la pressione competitiva sulla forza-lavoro, in modo tale che i salari reali non tengano il passo degli aumenti di produttività̀ e la domanda aggregata non si espanda allo stesso ritmo dell’offerta’.
Se la maggior parte della popolazione globale non è in grado di pretendere salari o redditi adeguati a consumare, chi consumerà la merce prodotta?
Una fittizia ‘soluzione’ adottata progressivamente nei trent’anni antecedenti al 2007-08 nei paesi occidentali è stata la concessione dell’indebitamento di massa. I cui risultati sono quelli che abbiamo già descritto.
A più di 10 anni dallo scoppio della bolla finanziaria, il debito individuale, aziendale e nazionale con diverse velocità e grandezze è giunto ai suoi massimi storici, evidenziando come l’incapacità sistemica di distribuire la ricchezza sia ancora ancorata alla possibilità di indebitarsi resa possibile da politiche monetarie ‘globali’ fortemente espansive.
Il nodo della ‘realizzazione’, ossia come trasformare le merci prodotte in denaro, si ripropone avendo acuito le contraddizioni insite nel neoliberismo, permettendo ai capitali di continuare ad eludere ‘la metamorfosi della merce’, allocandosi e riproducendosi nella sfera finanziaria.
Brexit, e conseguente indebolimento del ‘nano’ politico UE, guerra commerciale (ma soprattutto tecnologica) tra Usa e Cina, e tensione bellica crescente in diverse aree semi-periferiche dell’economia-mondo non stanno intaccando la fiducia dei e nei mercati finanziari.
Dietro a queste dinamiche si nascondono però spostamenti tettonici fondamentali ai fini di comprendere il contesto globale politico-economico all’interno del quale i soggetti sociali devono operare delle scelte volte ad acuire le contraddizioni di un sistema economico-sociale capitalista che pensandosi senza alternative, inebriato del suo oggettivo successo sta cercando nuove fortune in una nuova messa a valore della sfera riproduttiva e naturale delle nostre società.
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