Bahrain, Emirati Arabi e Yemen: tremando senza crollare.
Dopo il giro di vite che il 14 marzo scorso gli Al-Khalifa ed il GCC (Consiglio di Cooperazione del Golfo) hanno scatenato contro la piazza, l’opposizione popolare è sprofondata nella semiclandestinità, mentre quella parlamentare si è dissolta con l’arresto di alcuni leader e le dimissioni di altri; nonostante la promessa di revocare lo stato di emergenza il prossimo primo giugno, il capo di stato maggiore bahrainita Khalifa bin Ahmed Al Khalifa ha dichiarato che le truppe del GCC rimarranno nel paese per un periodo di tempo indefinito.
Nel più totale ed ipocrita silenzio occidentale, si contano 31 morti, oltre 150 desaparecido, mille arresti. Quattro dimostranti accusati di aver ucciso un poliziotto sono stati condannati a morte, mentre il prossimo 16 maggio continuerà il processo in corte marziale per 21 attivisti incriminati per cospirazione contro lo stato. A tutto ciò si accompagna la repressione più pervasiva e spietata che, senza guardare in faccia al sesso o all’età, si avvale di ogni mezzo di coercizione, dalle intimidazioni alla tortura; non sono state risparmiate le studentesse delle medie superiori ed inferiori sospettate di aver partecipato alle manifestazioni, sequestrate, minacciate di stupro, sottoposte a pestaggi e detenute per giorni; abbattute e rase al suolo le piccole moschee delle periferie sciite per compiacere i gruppi salafiti alleati delle autorità ed alimentare il conflitto settario; occupati e presidiati militarmente gli ospedali, e sospesi dal servizio o licenziati gli infermieri ed i medici sospettati di aver prestato soccorso ai contestatori, e fatti oggetto di ulteriori prevaricazioni e violenze.
Sono state prese di mira anche altre componenti delle proteste: Al Jazeera parla di centinaia di lavoratori licenziati lo scorso mese per non essersi presentati al lavoro nei giorni dei moti. Di questi 300 messi in mobilità dalla sola Bahrain Petroleum Company (BAPCO) ed altri 200 dalla telecom Batelco e dalle compagnie aeree ed aeroportuali, nel quadro più generale di un attacco governativo contro il sindacato, responsabile di aver mobilitato i suoi iscritti ed indetto scioperi a sostegno dei presidianti della Pearl Roundabout.
Anche sul fronte mediale il regime ha cercato di cancellare ogni testimonianza della rivolta e della repressione: chiuso ai primi di aprile il giornale di opposizione Al-Wasat, sono stati espulsi diversi cronisti stranieri accusati di parzialità verso gli insorti come Frederik Richter della Reuters e cameramen della CNN accusati di aver effettuato riprese in zone off-limits, mentre sono state lanciate dalle autorità campagne in sostegno del re Hamad, con l’invito ad esporre ritratti del sovrano e ad aderire a gruppi Facebook monarchici; sforzi di dubbio successo quantitativo, ma efficacemente ricompresi dallo “yes, we can!”, dal sapore decisamente lugubre, dell’account Twitter del ministro degli esteri Khalid bin Ahmed Al Khalifa.
Emirati Arabi Uniti, opposizione soffocata
Risparmiata dalle forme più visibili e massificate del sommovimento mediorientale, anche in virtù del generoso welfare riservato ai cittadini e della frammentazione e provvisorietà della manodopera reclutata dal subcontinente indiano e dal sud-est asiatico, l’entità federale del Golfo Persico non ha tuttavia esitato nei mesi scorsi a schiacciare brutalmente ogni parvenza di autonomia della società civile e della componente migrante.
Già in occasione dei moti del Cairo tra gennaio e febbraio la polizia di Dubai aveva più volte disperso i presidianti sotto l’ambasciata egiziana e arrestato un membro dell’associazione degli insegnanti che aveva espresso solidarietà agli insorti; successivamente è stato incriminato il blogger e membro dell’associazione dei giuristi Ahmed Mansoor, e a maggio sono stati sciolti e rimpiazzati da funzionari statali i consigli direttivi dei due organismi, i cui membri avevano sottoscritto assieme ad altri attivisti ed intellettuali emiratini un documento che chiedeva il suffragio universale e la concessione di effettivi poteri legislativi al Consiglio Nazionale Federale, per metà di nomina reale e per l’altra eletto da 6000 cittadini sugli 800000 del paese.
Yemen, stallo di sangue
Pur essendo solo un osservatore del GCC ed una repubblica, come detto lo Yemen è un paese strategico, sia per la sua posizione geografica che come banco di prova delle capacità politico-diplomatiche del GCC.
Nonostante non controlli più ampie fasce di territorio yemenita ed abbia contro influenti tribù e comandi dell’esercito, il presidente Saleh non sembra disposto a cedere il potere e ad accettare la dignitosa uscita di scena suggerita dal GCC, rimangiandosi la promessa di cedere il potere entro giugno e cercando di usare gli spazi di mediazione per guadagnare tempo e trascinare il paese in una situazione di stallo. Uno stallo che uccide! In questi giorni il movimento rivoluzionario yemenita è tornato ad occupare il campus e a muoversi in cortei che hanno attraversato la capitale del paese. Gli universitari di Sana sono stati i protagonisti della messa in moto del movimento che grida “rihal” (il que se vayan todos delle yemen) ormai da mesi, i primi a rispondere alla piazza rivoluzionaria tunisina insieme agli egiziani. Ed oggi sono ancora alle prese con il vecchio tiranno che non cede neanche a manifestazioni partecipate da decine e decine di migliaia di yemeniti, a sit-in di massa costruiti sul modello di piazza Tahrir e ad occupazioni e scioperi. Più di 30 studenti universitari sono stati uccisi nei giorni recenti durante i cortei nella capitale e per oggi è stata fissata ancora una grande manifestazione contro un regime che trema da mesi… ma ancora non crolla.
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