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Ben oltre le urne: what about the USA

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Pubblichiamo la trascrizione della discussione con Felice Mometti organizzata lo scorso 11 novembre dall’Archivio Via Avesella sullo scenario post-elettorale statunitense. 

 

 

Ringraziamo Felice Mometti, ricercatore e studioso nonché autore del testo “Da Occupy Wall Street a Black Lives Matter” (che senz’altro citeremo nella discussione e analisi che segue). Questo momento prenderà le mosse anche dal risultato elettorale delle presidenziali negli Stati Uniti, risultato non ancora ufficializzato ma di per sé ufficioso della vittoria di Biden e correlata sconfitta di Trump. Pensiamo ci sia l’esigenza di adottare uno sguardo d’insieme che sì, tenga come sfondo ovviamente l’importanza di questo evento a noi contemporaneo, ma che riesca anche ad avere una visione prospettica che guardi oltre e prima rispetto al contesto che oramai si articola ad oggi negli Stati Uniti. Stiamo parlando da un lato del paese più colpito da questa pandemia mondiale, dall’altro del paese che in questi sei mesi ha visto un’esplosione strabiliante di rivolte e di conflittualità con il movimento di BLM che, in maniera molto eterogenea e con delle pratiche di rottura rispetto al passato, è riuscito ad infiammare strade, piazze, intere metropoli nel momento storico forse più controverso e difficile rispetto all’attivazione sociale e all’esplicazione di una rabbia dal basso che esiste, in un contesto nel quale le disuguaglianze vengono esacerbate dalla situazione di crisi tanto sanitaria quanto economica portata dal Covid-19.

Parto con il dare qualche coordinata rispetto all’Ebook citato sopra e pubblicato da Connessioni Precarie, Da Occupy Wall Street a Black Lives Matter. Esso vuole essere uno sguardo che parte dall’inizio di Occupy Wall Street (nell’ottobre 2011) per arrivare più o meno al settembre di quest’anno: questo è l’arco temporale della raccolta dei testi, che sono il frutto in larga parte della riflessione sviluppata con Connessioni Precarie. Questo libro è uno sguardo sui movimenti di questi anni negli Stati Uniti. Movimenti che hanno avuto diverse intensità, che hanno conosciuto processi di soggettivazione molto importanti (Occupy Wall Street sicuramente), ma poi anche a movimenti sociali successivi che sono stati probabilmente meno analizzati in Europa e in Italia. Parlo per esempio degli scioperi nei fast food (2012/2013) dai quali poi si è sviluppata la campagna per il salario minimo di 15 dollari all’ora; mi riferisco ai primi scioperi alla Walmart – la più grande multinazionale del commercio, due milioni di dipendenti nel mondo – che sull’onda di Occupy Wall Street ha visto la costruzione di comitati di sciopero. E poi gli scioperi all’interno della classe operaia cosiddetta “tradizionale”, General Motors,Ford, Fiat-Chrysler che in questi anni ha messo in campo una serie di iniziative pur con tutte quelle contraddizioni e problemi che sono nati con l’insorgere di nuovi movimenti. Questo per delineare il senso dell’ebook, che si chiude con il grandissimo movimento che si sviluppa dopo la morte di George Floyd e la grande conflittualità che si sviluppa in tutto il paese tra fine maggio e fine luglio. Con anche qualche riflessione sulla strategia di cooptazione del movimento che il Partito Democratico inizia a mettere in campo tra la fine di luglio e il mese di agosto. È chiaro che durante la campagna elettorale tutta l’attenzione viene completamente dirottata su essa. C’è la necessità di cacciare Trump – all’interno di molti strati del movimento c’è infatti questa percezione molto forte – tant’è vero che uno degli slogan più utilizzati è stato: “Chiunque ma non Trump”. Se cacciare Trump era quindi una sorta di “obiettivo” comune, per andare verso dove è il nodo di discussione aperto oggi: cacciando Trump si pone il problema di che tipo sarà l’amministrazione Biden, che caratteristiche avrà, che politiche adotterà? Negherà completamente quelle di Trump? Questa è la discussione che attualmente c’è negli USA all’interno di settori consistenti del movimento. Sui giornali italiani ormai questo movimento è completamente sparito, ma bisogna tenere conto del fatto che in molte città non ci sono le grandi manifestazioni di giugno/ luglio, ma tantissime piccole iniziative – ad esempio a New York ci sono ancora oggi 7/8 piccole iniziative ogni giorno promosse da gruppi che mantengono un certo livello di conflittualità nello spazio urbano. Con anche delle forme di sperimentazione che continuano ad essere interessanti in quanto portatrici di una voglia di cambiare che riguarda soprattutto un settore giovanile che è stato la spina dorsale di questo movimento. Un settore molto dinamico e radicale che non si fa facilmente assorbire dai livelli istituzionali. Penso che dopo le elezioni ci saranno ancora delle iniziative da parte di questo movimento sociale, vedremo come e vedremo quali ma si ha la chiara percezione che la società americana sia attraversata da una forte conflittualità, soprattutto nelle grandi città.

Rispetto al “post-Trump”, che è un po’ l’interrogativo tendenziale con il quale termina l’ebook, è interessante l’ultimo capitolo, Una convention senza movimenti, che riflette su questo carattere di resilienza che già subito da Obama viene introdotto come la chiave, la salvezza, per questo scaccomatto al governo Trump: cedere il terreno della narrazione politica, ammettendo anche tutte le eccedenze che sono state innescate dalle proteste di BLM, senza mai porre un cambio sostanziale rispetto al sistema governativo/decisionale vigente in America. Anche nel testo stesso si pone come ci sia uno spazio altrettanto grande a quella convention per i parenti di George Floyd e per gli alti gradi dell’esercito, una sintesi che riesce a creare in sé un capovolgimento di ricomposizione che da un lato sa diffondersi ed essere più o meno condivisibile e leggibile da tutte le sfaccettature sociali che si sono andate a esplicitare in questi mesi, dall’altro lato – questa sintesi qui – fa sì che si cada in un immobilismo. Bisognerà vedere come si svilupperà la situazione con questo cambio di leadership, sia per quanto riguarda la gestione della pandemia – al di là delle proteste gran parte della campagna elettorale di entrambi si è centrata molto sulla gestione della situazione pandemica, anche dati gli apici di contagio e mortalità estremi raggiunti in territorio statunitense -, sia rispetto a quanto e se verrà sussunta la rabbia e la forte conflittualità che la popolazione ha espresso, in maniera molto eterogenea, in questi mesi. C’è, nel testo, un chiaro riferimento a come i movimenti di questi ultimi dieci anni siano stati sussuntori, ovvero sollevazioni che nascono da un carattere di peculiarità, di contingenza, di fase (Occupy Wall Street, la rivolta di Ferguson…) ma che si danno successivamente anche come radicati a caratteristiche di critica più formale al sistema in sé e per sé, che negli Stati Uniti è un sistema fortemente influenzato dalla questione razziale. Anche la lettura dell’esplosione di Black Lives Matter, che è sicuramente riconducibile alla tremenda morte di George Floyd, vede un movimento che riesce a farsi voce e rabbia di qualcosa che costituisce una contaminazione delle lotte; essa non è riconducibile ad un unico asse vertenziale, si parla tanto di razza quanto di genere, di autodeterminazione, di reddito. Si dà quindi poi come una critica tout court al sistema tutto, e anche rispetto a questo risulta quindi interessante individuare un filo conduttore tra questi movimenti, che si configurano dunque come critica radicale al sistema.

Io la vedo in questo modo: negli USA la grande crisi economica del 2007/2008 è diventata sia crisi politica che crisi della riproduzione sociale, della riproduzione della società in quanto tale. In questa crisi della riproduzione sociale si innescano eventi e processi che assumono caratteristiche molto radicali e che hanno anche la funzione di essere dei momenti di soggettivazione di settori sociali che sono alle prime esperienze politiche. Nuove generazioni che partecipando alle lotte esprimono una conflittualità radicale, come si è chiaramente visto da fine maggio in poi. C’è da dire anche un’altra cosa: BLM è un insieme ibrido. Soprattutto uno spazio politico di soggettivazione, ma è anche una coalizione di associazioni e gruppi preesistenti. In alcune città addirittura BLM è diventata una ONG, con tanto di presidente e consiglio direttivo. C’è quindi un ampio spettro di situazioni che stanno sotto questo brand, e ovviamente ne derivano anche comportamenti e forme del conflitto piuttosto diverse nelle varie città. Black Lives Matter, a mio avviso, ha attraversato tre distinte fasi. Una prima fase dalla nascita come un hashtag su twitter fino alla la rivolta di Brooklyn del 2013 per l’uccisione da parte della polizia di Kimani Gray, un giovane afroamericano. BLM da semplice account diventa un riferimento simbolico delle proteste. Con i riot di Ferguson dell’agosto del 2014 nella costellazione di BLM avviene un passaggio qualitativo. Importanti settori di uel movimento si pongono il problema di come il conflitto che sviluppano può essere organizzato. Su questo tema sono coinvolte anche vecchie associazioni afroamericane. Infatti nell’ottobre 2014 viene organizzato un incontro di più giorni , “Ferguson Action”, dove si confrontano e scontrano due concezioni che riguardano il ruolo che le associazioni afroamericane devono svolgere in quel contesto politico. C’è il settore più rivolto al passato, che prende come modello la grande stagione dei diritti civili degli anni ’60 e vuole riprodurre quel tipo di iniziativa all’interno di BLM, e invece un settore molto più giovanile, più dinamico, che riconosce tutti i meriti del movimento degli anni ’60, ma, al tempo stesso, dice che quel tipo di movimento e di organizzazione del conflitto oggi non valgono più, non hanno più un impatto significativo. La composizione sociale, le forme di esprimere il conflitto soprattutto nelle grandi aree metropolitane sono completamente cambiate e rimanere legati a vecchie forme espressive e organizzative del conflitto non fa fare passi in avanti. Ferguson Action si chiude con una divisione evidente e ognuno si concentrerà nelle iniziative nei propri contesti urbani e territoriali. Una terza fase la si può vedere ora con l’attuale movimento. BLM è uno spazio politico di soggettivazione e di iniziativa che va oltre i contesti locali ed è anche luogo e strumento nel quale soggettività diverse, non solo afroamericane, agiscono e discutono come affrontare l’attuale crisi sociale. Una crisi strutturata su più livelli. Una crisi sanitaria che vede il maggior numero di morti proprio tra chi ha origini afroamericane e latine. Se, ad esempio, si guarda la mappa dei morti a New York, si nota subito che il virus ha colpito duramente nelle zone latine e afroamericane. Le zone molto ricche di Manhattan sono pochissimo colpite dal virus. Il reddito è molto più alto e diversa è la possibilità di accesso alle cure in ospedali di alto livello e con attrezzature all’avanguardia. Mentre in gran parte di Brooklyn, del Queens e del Bronx non ci sono redditi e possibilità per accedere ad assistenze e cure sanitarie adeguate. Il movimento di Black Lives Matter si costituisce quindi in varie fasi e attraverso vari passaggi. L’ esplosione del movimento ha preoccupato non poco non solo gli apparati dello Stato, che hanno messo in campo una risposta repressiva, ma anche le varie articolazioni politiche, sociali, culturali del partito democratico che hanno adottato un’altra strategia. Tra la fine di luglio e il mese di agosto (il mese delle convention del partito democratico e di quello repubblicano) è stata messa in opera una strategia di contenimento e cooptazione del movimento. Si riconosce che razzismo sistemico è un elemento strutturale della società americana ma subito dopo si sostiene che l’unico terreno per battere questo razzismo sistemico sia quello istituzionale. E da questo deriva che ora è prioritario cambiare le istituzioni dall’interno. La pandemia sta sterminando soprattutto la popolazione afroamericana e latina ed è necessario riorganizzare il sistema sanitario. Ma i cambiamenti necessari non devono mettere in discussione i principi privatisti sui quali si regge. È diventata tristemente famosa una frase di Joe Biden, pronunciata nell’aprile di quest’anno quando l’Italia era tra i principali paesi colpiti dall’epidemia. Alla domanda “Non sarebbe necessario un sistema sanitario pubblico come in Italia?” La risposta è stata:“L’Italia è la più colpita proprio perché ha un sistema sanitario pubblico”. Senza voler essere nostalgici ma la vecchia definizione del partito democratico come “cimitero dei movimenti” è ancora oggi attuale. Ora dopo i quattro anni di Trump, per il partito democratico si apre la fase della riconquista della leadership internazionale da parte degli Stati Uniti. L’isolazionismo che “ha messo in imbarazzo gli Stati Uniti nel mondo”, altra citazione di Biden, deve essere superato. Con queste premesse e con il risultato delle elezioni penso si apra una nuova fase dal punto di vista istituzionale ma soprattutto della conflittualità sociale. Di certo i movimenti sussultori della società americana non verranno meno.

La campagna elettorale, tanto quella esplicita quanto quella implicita, di Biden è stato davvero un “vale todo” purché non vincesse Trump; il suo tentativo di essere qualcosa realmente di massa e di aggregazione è partito proprio da questo aspetto qui. Campagna elettorale e risultati elettorali forniscono un dato chiaro rispetto ad una determinata polarizzazione, tanto della popolazione americana in generale, quanto dei territori in maniera più specifica; di per sé in ogni caso riscontriamo una percentuale di votanti che è un dato fondamentale per poter portare avanti un’analisi complessiva della situazione negli Stati Uniti. Basti come esempio che Trump abbia perso pur avendo ricevuto un numero di voti maggiore questa volta che quattro anni fa quando è stato eletto. Ci troviamo davanti a 6 mesi nei quali, si può affermare senza mistificazioni, c’è stata una elevazione, una centralità della vita politica, tanto nelle piazze quanto nell’incredibile affluenza alle urne; questo voto si è dato in maniera variegata su tutto il territorio statunitense, basti prendere come esempio la Florida (uno dei territori a forte supporto di Trump, anche per quanto riguarda il voto latino), oppure utilizzare un’ottica di insieme rispetto all’analisi di come è stata la vita negli altri territori durante la campagna elettorale, durante la pandemia (per esempio il referendum in Luisiana o in California – dove da una parte si discuteva di aborto, dall’altra di gig economy). Quello che intendo è che la situazione in cui si sono svolte queste elezioni sia stata veramente variegata e da analizzare stato per stato; rispetto a quello che dicevi prima su quanto il movimento esploso in questi mesi costituisca delle specificità territoriali per cui ogni stato, città e territorio in cui si è andato a innescare Black Lives Matter ha fatto sì che questo movimento vivesse di pratiche e di attitudini diverse (caratteristica che emergeva anche rispetto ad Occupy Wall Street). Non ci si può esimere dal descrivere questo movimento – così variegato, pieno di sfaccettature e particolarità, molto legato ai territori su cui prende vita – come un movimento di classe; classe che non va intesa come qualcosa di statico e monolitico ma una classe che si autocostituisce (nelle pratiche, nelle analisi, nell’attitudine), anche nei termini della possibilità di contaminazione tra le lotte. Bisognerà ora vedere come questo movimento, in particolare in questo contesto sanitario, riuscirà a continuare.

Penso che Black Lives Matter sia e sia stato un movimento in cui l’aspetto della sperimentazione ha giocato un ruolo importante. Certamente un grande spazio politico di soggettivazione ma anche un laboratorio per l’attuale composizione di classe negli Stati Uniti. Si è potuto vedere all’opera un concetto politico di classe, non meramente sociologico e di fatto statico. Qui si potrebbe aprire una lunga discussione su quale sia stato il rapporto tra questo movimento e la “classe tradizionale” delle grandi fabbriche e grandi aziende. Ma oggi anche quel tipo di forza lavoro non più confinabile in schemi e modelli del passato. Questo richiederebbe un’analisi approfondita e ipotesi di lavoro per quanto riguarda le forme del conflitto sociale, l’orientamento politico e di genere, gli obiettivi e le pratiche. Per fare solo un piccolo esempio guardiamo a due referendum che si sono tenuti, durante queste elezioni, in Florida e in California. In Florida ha vinto il referendum che introduce il salario minimo di 15 dollari all’ora e in California è passato il referendum (promosso da Uber, Lyft, Instacart, Postmates che hanno investito nella campagna referendaria più di 200 milioni di dollari ) che esenta le società basate su piattaforme digitali e app dall’applicare i diritti dei lavoratori previsti dalle leggi della California. Ma in Florida ha vinto Trump alla grande e in California hanno vinto i democratici a mani basse! È interessante guardare le cartine che riportano i voti nei vari territori: si vede che in molte contee in cui vince Trump in Florida, vince anche il referendum per il salario minimo. E qui si apre una questione piuttosto grossa su cosa sia il trumpismo e come schematiche definizioni non colgano le dinamiche sociali. Dall’altra parte invece si può vedere che a San Francisco Biden prende oltre l’80%, nella Silicon Valley più del 75%, a Los Angeles supera il 70%. E in quei stessi territori e città vince nettamente un referendum che riduce i diritti dei lavoratori. Come si vede il trumpismo non è un blocco sociale coeso, è più un contenitore all’interno del quale ci stanno le formazioni dell’estrema destra fasciste e naziste ma anche i pensionati della Florida, settori impoveriti di lavoratori precari. Se guardiamo, altro piccolo esempio, il comportamento elettorale delle comunità latine vediamo che non è omogeneo, non solamente in Florida (dove la provenienza è in gran parte cubana anticastrista e venezuelana anti-Chavez) ma anche nella parte sud del Texas, dell’Arizona, del New Mexico. Sono in atto alcuni processi, all’interno delle comunità latine, che ne stanno modificando la composizione sociale e l’espressione politica ed elettorale. E’ una discussione aperta, emersa in modo lampante in queste elezioni. Sono segnali mettono in contraddizione la lettura sia del trumpismo che il partito democratico come blocchi sociali omogenei, la situazione mi pare più fluida e molto più instabile. Simbolo dell’instabilità è lo stesso Joe Biden. Il quale ora dovrà affrontare una serie di scadenze importantissime e da come le affronterà alcuni nodi si scioglieranno. Queste elezioni sono senza dubbio state un modo per far emergere alcuni fenomeni sociali che erano sotto traccia. Cosa farà Joe Biden da qui in avanti? Prima parlavo della convention democratica, dove si sono pronunciati per la ricostruzione di una leadership internazionale degli Stati Uniti. Joe Biden ha in programma, nel primo anno di presidenza, la convocazzione di un summit delle democrazie (e qui si pone il problema della governance globale). Io penso che Biden, dal momento in cui prenderà pieni poteri e verrà proclamato ufficialmente presidente, cambierà lo stile, la tattica, il modo di porsi verso Trump, autorizzerà alcuni ordini esecutivi per cancellare gli ordini esecutivi fatti da Trump (rientrerà negli accordi di Parigi riguardo al clima, cancellerà l’ordine esecutivo contro l’ingresso negli Stati Uniti di persone che provengono da alcuni stati musulmani, cambierà gli ordini esecutivi riguardo alla produzione di carbone ecc.). Quello che certamente Joe Biden non farà, sarà mettere in discussione gli aspetti fondamentali della riproduzione sociale, del razzismo istituzionale e qui c’è la discussione della sinistra interna o a cavallo del partito democratico, la quale è stata marginalizzata in questo passaggio elettorale.

Io credo che emerga come essenziale l’essere totalmente sciolti rispetto ad un approccio monolitico tanto ad un personaggio come Trump, che ad un personaggio come Biden. Senz’altro i referendum che si sono svolti durante le elezioni sono la prova tangibile della fluidità della situazione: non scordiamoci che il referendum che si è andato a votare in California, si è posto come un ritorno a sei mesi fa (a gennaio la California aveva fatto un piccolo passo in avanti rispetto al riconoscimento dei diritti dei lavoratori della gig economy). Fa molto riflettere dunque questo ritorno alla situazione pregressa in uno stato come la California, a supporto dei democratici. Penso sia importante invece dall’altra parte, per il trumpismo, riflettere su come si sia data l’emersione del movimento di QAnon, una delle forme di maggior supporto alla figura di Trump idealizzata in sé e per sé quanto poi alla sua campagna elettorale in modalità anche abbastanza marcate e forti. Penso che la visione di insieme che ci dà questa campagna elettorale, immersa nel contesto pandemico e nel contesto delle rivolte sociali di BLM sia qualcosa di veramente variegato. Arrivo ora ad una domanda posta nei commenti, “Un motivo di discussione in USA, soprattutto in primavera, è stata quella del ruolo dei gruppi militanti genericamente racchiusi da Trump nella definizione ANTIFA. Anche Biden e Harris non si sono sprecati nell’attaccare questi gruppi addossando loro molte responsabilità circa l’aspetto più violento delle proteste di BLM. Che ruolo hanno avuto veramente questi gruppi in BLM?”

Negli Stati Uniti non esiste un’organizzazione nazionale che si chiama “Antifa”; il brand è stato usato a scopi puramente strumentali sia da Trump che da Biden, e spesso per “Antifa” sono stati individuati gruppi tra i più variegati , che certamente sono antifascisti ma che non sempre è l’aspetto principale del loro agire politico. Questa è stata più una grande campagna, fatta da entrambi i candidati, contro un “mostro antifa” che in realtà non esiste. Negli Stati Uniti ci sono gruppi antifascisti storici che hanno e hanno avuto un ruolo significativo all’interno dei movimenti – a seconda delle città e del loro radicamento – senza però essere elementi unificatori a livello nazionale. Negli Stati Uniti non è proprio semplice comunicare politicamente ad esempio da New York a San Francisco. Sembra una banalità, ma gli approcci (come si era visto anche con Occupy Wall Street) sono diversi e risentono molto del tipo di processi metti in atto, delle esperienze, delle mancate connessioni del passato. Un discorso abbastanza simile (non perché uguale ovviamente), riguarda i gruppi di estrema destra. I quali, da come si è visto e in base a come si sono mossi, sono molto più radicati a livello locale e non hanno una visione a livello nazionale. Tant’è che in questi giorni in cui Trump non accetta il risultato elettorale e sostiene che gli hanno rubato la vittoria e che il partito democratico è molto vicino alle “ dittature comuniste” questi gruppi non si sono visti scendere in piazza (al di là di alcuni episodi, come per esempio ad Austin).Ciò penso stia a dimostrare che è il radicamento locale a contare e non una dimensione politica nazionale. In questa situazione di “interregno” in cui ci sono due presidenti in conflitto, ci possono essere però delle accelerazioni. Sabato prossimo è indetta una manifestazione a Washington di quello che negli Stati Uniti passa sotto il cappello di MAGA (Make America Great Again). Tutto il trumpismo si da’ appuntamento alla Million Maga March di Washington e sarà un banco di prova dei rapporti di forza. Anche perchè le iniziative legali messe in campo da Trump per la contestazione dell’esito delle elezioni devono avere un risvolto sociale, conflittuale per permettere di valutare quanto realisticamente l’atteggiamento di Trump abbia un futuro.

 

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