Cosa c’è dietro l’ennesimo azzardo elettorale di Erdogan?
E cosa comporta per il movimento di liberazione curdo
La decisione di ieri del Supremo Tribunale Elettorale di far ripetere le elezioni di fine marzo ad Istanbul (quando Erdogan millantò che non ce ne sarebbero state fino al centenario della repubblica turca nel 2023) non è semplicemente indicativa della centralità politico-economica della metropoli sul Bosforo (che conta 15 milioni di abitanti ufficiali sparsi su un’area grande come la Liguria) nel mantenimento del sistema di clientele e immaginario del regime dell’AKP.
E’ un azzardo che segue l’autorizzazione di far visitare lo scorso 2 maggio il leader curdo Abdullah Ocalan – prigioniero in isolamento nel carcere di Imrali in sfregio ad ogni convenzione internazionale – dai propri avvocati per la prima volta dopo 8 anni. Incontro prodotto dalla campagna di sciopero della fame lanciata dalla deputata HDP Leyla Guven, seguita da 7000 detenuti politici ed attivisti in tutto il mondo (nonostante il silenzio della comunità internazionale e l’ostracismo di ONG come Amnesty International). Ma in cui importante è stata l’opera destabilizzatrice dell’HDP, riuscito con la propria desistenza nelle metropoli turche dell’ovest nelle elezioni di marzo ad impedire la vittoria di Erdogan; che, pur nel mantenimento della repressione, ora appare più disposto a concessioni tattiche inedite per far sì che tale scenario non si ripeta.
Mentre ieri il cambio della lira turca contro il dollaro ha toccato il minimo di 6,1 ad 1 (eguagliando il livello della grave crisi dello scorso anno, e nella negativa persistenza della guerra dei dazi anticinese di Trump) Erdogan non ha più la legittimazione post-golpe del 2016: quando il 7 agosto portò un milione di persone ed i leader dei partiti MHP e CHP in piazza Yenikapi nella stessa Istanbul – per poi avvantaggiarsi di quell’appoggio nelle successive purghe dell’apparato statale. E la situazione politica interna è diversa persino da un anno fa, quando l’invasione di Afrin e dell’Iraq settentrionale vennero avallate dal consenso nazionalista trasversale nel parlamento turco e dagli interessi delle potenze regionali.
Persino dall’Unione Europea – grande e interessata fiancheggiatrice del regime di Erdogan – è arrivata la condanna per lo stravolgimento del voto stambuliota. Ma soprattutto, nello stesso comunicato dell’Alta Rappresentante per la Politica Estera Mogherini, è arrivato per la prima volta il riconoscimento dell’illegalità della rimozione degli amministratori eletti nel sud est (a maggioranza curda) dopo il voto di fine marzo 2019. In ritardo di quasi quattro anni dal 2015, quando il mancato raggiungimento della maggioranza parlamentare necessaria all’AKP per la sua riforma costituzionale – ora tanto condannata – produsse 5 mesi di strategia della tensione in tutta la Turchia e devastazioni, torture e massacri nel sud est: finché le elezioni di novembre non produssero il risultato gradito al partito erdoganiano.
Ora sono tempi duri per quest’ultimo, affiliato al movimento islamista conservatore e reazionario della Fratellanza Musulmana. E per l’agibilità di tale organizzazione in tutta la regione: messa al bando in Egitto, dove la dittatura de facto di al-Sisi sta provando a trincerarsi al comando fino al 2030; defenestrata dalle proteste popolari in Sudan, in cui al-Bashir ha perso il potere dopo 30 anni e in cui gli stessi investimenti economici e militari turchi sono a rischio; assediata in Libia – in cui solo la frammentazione e l’opportunismo delle parti in conflitto concedono respiro al premier al-Serraj, alleato di Erdogan; e sotto embargo nel suo quartier generale in Qatar, sottoposto a sanzioni dal 2017 dalle monarchie assolute dei partner del Consiglio di Cooperazione del Golfo dopo il via libera del vertice di Riyadh tra il re saudita Salman, lo stesso al-Sisi e Trump.
E nelle ultime ore è proprio il presidente statunitense a promettere di assestare l’ennesimo duro colpo al movimento, inserendolo nella lista del Dipartimento di Stato delle organizzazioni terroriste soggette a sanzioni. Nella prospettiva di un conflitto (o per lo meno di un contenimento) contro l’Iran Trump – assieme alle dittature militari e monarchie assolute sue alleate, con cui però il progetto di “NATO araba” stenta a decollare – vuole mandare un messaggio chiaro a quella parte di mondo sunnita che vi intrattiene rapporti per convenienza o leva geopolitica: ancora una volta Turchia e Qatar.
Non mancano nemmeno le ripercussioni sul fronte siriano: da una parte, dopo mesi di coesistenza, la Russia ha dato il via libera ad Assad per avanzare nella regione di Idlib – principalmente sotto controllo dei jihadisti di al Qaeda ma in cui Erdogan esercita un protettorato di fatto. Mentre un attacco turco contro Tel Rifaat, base di resistenza delle YPG e retrovia in cui sono confluiti gli sfollati della regione di Afrin, è stato interrotto proprio in concomitanza con il pronunciamento da Imrali di Ocalan e la reiterazione di quest’ultimo di una proposta di cessazione delle ostilità che favorisca e consolidi istituzioni e processi di democratizzazione reale già all’opera nelle dimensioni nazionali turche e siriane.
E’ quindi il momento giusto per aumentare la pressione dal basso sul regime. Il KCK, l’organizzazione ombrello delle comunità curde in Turchia, Iraq, Iran e Siria, ha già promesso la continuazione dello sciopero della fame – che ha già prodotto 15 martiri – fino alla cessazione definitiva dell’isolamento di Ocalan; nonostante il richiamo di quest’ultimo agli scioperanti a non mettere in pericolo le proprie vite. Mentre da poco è stata lanciata la campagna Riseup4Rojava, alle cui iniziative è possibile aderire per tenere alta la sensibilizzazione e l’attenzione rispetto alle conquiste della rivoluzione confederale, e di difenderle ed avanzarle nei confronti del fascismo di Erdogan.
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