Cosa pensano i palestinesi del Kurdistan?
“Non mi chiedere cosa penso dei curdi. Ho la testa talmente piena di casini che a volte, quando sento le notizie in televisione, semplicemente la spengo. Questo dice che ha ragione Erdogan, quello che hanno i ragione i curdi… Non me lo chiedere, non lo so”. Mustafa non sa rispondere alla nostra domanda, mentre viaggiamo su un minibus da Nablus a Jenin. Erdogan, oggi in declino nell’opinione pubblica palestinese a causa del suo ruolo anti-siriano e dell’appoggio sottobanco all’Is, è stato negli anni scorsi molto popolare nei Territori: molte scuole nei campi profughi sono state costruite con soldi turchi, e la tentata rottura dell’embargo a Gaza da parte della nave turca Marmara, nel 2011, aveva impressionato una Palestina sempre più isolata a livello internazionale. Hamas, legata oggi a potenze come Qatar e Arabia Saudita, a loro volta alleate della Turchia, si è congratulata con Erdogan dopo la vittoria alle elezioni dello scorso novembre – che per i curdi ha significato la catastrofe.
Ha le idee poco chiare, su questo tema, anche Jamila, che ci parla a nome del comitato delle donne palestinesi di Ramallah; ci prega di chiedere alle compagne più grandi. Abla, storica militante, interviene a dissipare i dubbi: “Appoggiamo le donne curde e la loro lotta perché la nostra non è soltanto per la Palestina, ma per la liberazione di tutte le donne e di tutti i popoli del mondo”. Leyla, venticinque anni e attiva nelle file del Fronte Popolare (principale gruppo marxista palestinese) conferma in un caffè del centro: “Fin da piccoli impariamo a scuola la storia del popolo curdo. Ammiro profondamente le donne curde che combattono contro Daesh e per l’indipendenza del Kurdistan, per me sono un grande esempio”. Anche Habeer, a Jenin, conferma questo punto di vista: due anni fa è volata a Erbil, in Iraq, per partecipare a una conferenza femminile organizzata proprio dalle donne curde legate al Kck. Lina Khattab, studentessa dell’Università di Bir Zeit, imprigionata tempo fa da Israele e al centro di una campagna che ha avuto risonanza in tutto il mondo arabo, le fa eco: “Il popolo curdo, come tutti i popoli, ha diritto alla propria indipendenza”.
La questione è tutt’altro che banale. I ritratti di Saddam Hussein, che ha massacrato da ministro prima, e da presidente poi, decine di migliaia di curdi in Iraq tra il 1960 e il 1991, campeggiano per le strade dei campi profughi da Jenin a Betlemme. Saddam è considerato un eroe dai palestinesi: “E’ l’unico presidente arabo ad aver bombardato Israele. Questo non lo dimentica nessuno” sorride Hamza, nel campo profughi di Deisha. Una compagna di Ramallah si spinge a dire che Saddam “se non era comunista, quasi”. Il nazionalismo arabo ha avuto un’influenza sulla cultura politica palestinese; e se ha posseduto un’innegabile caratura anti-coloniale, ha mostrato nel tempo anche i lati oscuri di qualsiasi nazionalismo (anzitutto in rapporto a chi, nei paesi arabi, arabo non è; come i curdi, ma non solo).
Un proverbio arabo afferma: “Al mondo ci sono tre calamità: le locuste, i topi e i curdi”; nulla di più lontano dalla considerazione propria dei compagni palestinesi ma, nell’Iraq settentrionale arabizzato da Saddam della provincia di Niniveh, i villaggi attorno alla città curda ezida di Singal hanno calorosamente appoggiato lo stato islamico mentre vi compiva uno dei peggiori massacri della storia recente (agosto 2014). Omar Shedade, portavoce a Ramallah dell’Fplp, ricorda che le relazioni del suo partito con il Pkk risalgono alla fondazione dell’organizzazione armata curda dopo il 1978: “Il Pkk ha aperto il suo primo campo di addestramento in Libano, nella valle della Bekaa, sotto intercessione dell’Olp, di cui il Fronte Popolare era parte”. I combattenti del Pkk combatterono addirittura al fianco dei palestinesi contro l’invasione israeliana del Libano del 1982, lasciando sul campo sei caduti. Tuttavia, quando chiediamo a Mustafa Barghouti, candidato della sinistra alla presidenza dell’Anp nel 2005, quale messaggio vorrebbe inviare oggi ai curdi, risponde accigliato: “Di essere prudenti con Israele”.
Il leader nazionalista curdo conservatore Mustafa Barzani, negli anni Settanta, fu sospettato di aver intavolato colloqui segreti con lo stato ebraico in funzione anti-irachena, proprio ai margini della guerra dello Yom Kippur; e suo figlio Massud, attuale presidente del Governo Regionale Curdo dell’Iraq (protetto dalla Nato), non fa mistero dei suoi rapporti cordiali con Tel Aviv. Chiediamo quindi a Barghouti se il suo messaggio è rivolto specificamente al partito di Barzani e al governo autonomo di Erbil, o anche alla sinistra curda. “Il messaggio è rivolto a tutti”, risponde anodino. Nassar Ibrahim, militante palestinese attivo da decenni su tutto il quadro mediorientale, e competente analista politico, non esita a dire che “sebbene tutte le lotte per l’autodeterminazione vadano appoggiate, ciascuno deve decidere da che parte stare e spiegare con chi fa alleanze”.
Il riferimento è ancora al governo curdo iracheno ma, cosa più importante, alle Ypg siriane (e attraverso esse al Pkk, loro alleato) che hanno partecipato alla sollevazione anti-Assad nel 2011. “In Siria non esiste alcuna rivoluzione – afferma Ibrahim lapidario – esiste un regime pieno di difetti e una situazione sociale che meriterebbe una rivoluzione, ma ciò cui assistiamo non è che una sporca guerra per procura finanziata e armata dagli Usa, che ha prodotto un’ondata reazionaria [anzitutto attraverso il rafforzamento di Al-Qaeda e la nascita dello stato islamico, Ndr] in tutta la regione”. Il primo obiettivo di qualunque marxista, afferma Ibrahim, dev’essere prendere posizione. Un militante, dice, non può crogiolarsi nella neutralità: occorre oggi supportare il regime e garantire l’integrità territoriale siriana.
Il governo di Damasco, non è un mistero, è stato l’unico a continuare a finanziare ed armare la resistenza laica palestinese (compreso il Fronte Popolare) negli anni Duemila, dopo la caduta di Saddam Hussein. “Colin Powell disse chiaramente ad Assad nel 2004 che, se avesse lasciato stare Israele, nessuno l’avrebbe toccato. Oggi paga l’aver continuato ad appoggiare la nostra causa” continua Nassar. L’atteggiamento delle Ypg nella crisi siriana, afferma, è migliorato nell’ultimo anno, quando sono state formate le Forze Democratiche Siriane a loro guida che non si contrappongono in primo luogo al governo (anzi vi collaborano, sebbene limitatamente alla guerra contro l’Is). In questo caso, dice, anche ricevere un appoggio statunitense può essere accettabile su un piano pragmatico, “sebbene il ruolo chiave nei combattimenti siriani – anche in Kurdistan – ad oggi lo esercitano i russi”.
Potrebbe apparire un discorso “antimperialista” in senso deteriore, là dove con questo termine si intenda la dissoluzione delle questioni sociali nella geopolitica e in una visione scivolosa delle relazioni internazionali come “indirette” relazioni di classe; eppure è necessario contestualizzare questo punto di vista in una condizione di lotta ben diversa da quelle attuali in Europa, dove i rapporti di forza impongono una concretezza che lascia poco spazio alle posizioni astratte. Visti in questa prospettiva i movimenti di liberazione in medio oriente appaiono destinati tendenzialmente ad eludersi, o addirittura escludersi, a vicenda, stretti nella morsa fatale di rapporti politici dettati – lo si voglia o meno – da uno “status quo”. Proviamo a ipotizzare se in questa nuova situazione, in cui gli stati creati con da Inghilterra e Francia nel 1916, alla dissoluzione dell’Impero Ottomano, appaiono attarversati da crisi irreversibili (Siria e Iraq, ma anche Libia), non sarebbe più utile, per i palestinesi, vedere nei curdi una potenza regionale alternativa, con cui relazionarsi in modo strategico anche su un piano pragmatico.
Yasser, giovane compagno di Betlemme, spegne ogni entusiasmo: “Paragonare o accostare le lotte tra loro non paga: ogni storia nazionale è a sé”. L’internazionalismo è dunque morto? “Assolutamente. Nacque in una circostanza storica specifica, su basi sociali e materiali proprie di un’epoca: oggi quelle condizioni non esistono più. Meglio evitare di crogiolarsi in queste illusioni, e comprendere che se quella possibilità tornerà a farsi avanti – come io stesso spero – non è questo il suo tempo”. La fine della divisione coloniale propriamente statuale del mondo arabo o “musulmano”, inoltre, non è per lui per nulla alle porte: le potenze occidentali e la Russia stanno soltanto ridisegnando la collocazione dei confini, aggiornando la geografia coloniale. “Smettiamo di pensare, ingenuamente, che ciò che accade oggi è la fine di Sykes-Picot [la menzionata intesa del 1916 tra i ministri francese e britannico, Ndr]. Ciò che abbiamo di fronte non che un nuovo Sykes-Picot”.
dai corrispondenti di Infoaut e Radio Onda d’Urto in Palestina
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