Egitto, divieto di sciopero e rabbia
“Nella tradizione, quando qualcuno della famiglia viene ucciso, non ci si può radere per i successivi 40 giorni e finché non viene fatta giustizia. E’ dal 25 gennaio che non mi radoAhmad, istruttore di immersioni nel Mar Rosso, mi accompagna nella marcia che ieri è partita dall’area di Mespero, di fronte al palazzo della televisione e della radio pubblica al Cairo, alle 6 del pomeriggio. Il corteo, all’inizio nell’ordine delle centinaia di persone, è cresciuto di numero mentre passava sul lungo-Nilo. Poi, ha attraversato l’area di Tahrir e ha fatto sosta davanti al Parlamento. Verso le 8 della sera, la manifestazione è tornata indietro e si è fermata di nuovo nella piazza. e sto ancora aspettando”.
I motivi della protesta di ieri erano molteplici. Anzitutto la nuova legge, approvata dal governo ma non ancora ratificata dal Consiglio Supremo delle Forze Armate, che criminalizza scioperi e manifestazioni. Durante il corteo, molti anche gli slogan che chiedevano il processo ad Hosni e Gamal Mubarak, Ahmad Ezz, Safwat al-Sharif, Zakariyya Azmi e altri membri del regime e la sospensione dei vertici direttivi della radio e televisione egiziana, che hanno contribuito alla campagna governativa a favore di Mubarak. “Mio fratello è in prigione e Mubarak è ancora libero” e “Vogliamo un’informazione pulita”, cantavano le persone scese per strada.
Moltissimi i lavoratori della televisione e gli aderenti ai sindacati indipendenti di nuova formazione e alla neonata Unione Indipendente dei Sindacati. Se durante il regime di Mubarak l’unionismo era tenuto sotto controllo dalla Federazione dei Sindacati Egiziani, che limitava le libertà sindacali, ora moltissimi lavoratori si stanno organizzando con unioni di categoria.
Mercoledì scorso il governo Sharaf ha reso pubblico il contenuto del nuovo provvedimento, che vieta proteste e scioperi. Subito è arrivata la condanna della Coalizione dei Giovani della Rivoluzione del 5 Aprile, di varie organizzazioni per la difesa dei diritti umani e del blocco dei sindacati. Come recitavano i cori di ieri “E’ tornato Mubarak o cosa?!”. La norma, infatti, se approvata dal Consiglio Supremo delle Forze Armate, prevede fino ad un anno di carcere per coloro che partecipano a proteste, sit-in, marce e scioperi che disturbino o fermino attività lavorative. In più è prevista un’ammenda che va dalle 30mila (circa 3.500 euro) alle 500mila ghinee egiziane (quasi 60mila euro). Anche chi incita e promuove le eventuali manifestazioni rischia una multa fino a 50mila ghinee (circa 6mila euro). Il provvedimento resterebbe in funzione fino alla sospensione dello stato di emergenza, in forze da 30 anni.
Una norma controversa, che il governo Sharaf, nella dichiarazione della settimana scorsa, difende con il bisogno di tornare alla normalità e far ripartire l’economia. L’ondata di scioperi che ha travolto il Paese negli ultimi due mesi deve interrompersi. Il governo ascolterà i bisogni espressi dai lavoratori e cercherà di soddisfarli. Tra i motivi della norma anche il timore che le proteste di questi giorni siano organizzate da ex-membri del regime che cercano di promuovere una contro-rivoluzione. Così ha ripetuto anche il Ministro della Giustizia al-Giundi. “Chi sciopera non dovrebbe farlo a spese degli altri e del loro diritto all’accesso ai servizi”. Posizioni che sembrano suggerire soprattutto il timore di un possibile collasso dell’economia egiziana.
Un discorso che non ha senso per Ahmad. La “rivoluzione” egiziana è appena iniziata e “ora arriva la parte più difficile, visto che il Consiglio Supremo delle Forze Armate e il nuovo governo sono riusciti a dividere la popolazione. Molti egiziani adesso parlano di istikrar (il ritorno alla normalità), ma non capiscono che non ci può essere ritorno alla normalità finché tutte le domande della rivolta non sono soddisfatte. Qui a Tahrir abbiamo chiesto adala igtima’iyya (giustizia sociale) e la risposta è stata: divieto di sciopero, proprio ora che ce ne è più bisogno per far valere i diritti dei lavoratori”. Continua a spiegarmi: “quella che abbiamo ora è una chance unica per sovvertire il regime che ci ha governati finora e cambiare veramente la società. Per farlo dobbiamo continuare a protestare e restare con gli occhi aperti 24 ore al giorno”.
“Qui siamo tutti fratelli, senza differenze religiose e di appartenenza sociale, anche se l’esercito e i vecchi membri del regime provano a dividerci”, dice Hamdi della comunità copta, ricordando lo spirito di unità nazionale che ha caratterizzato la protesta iniziata il 25 gennaio. “Quello che il Consiglio Supremo delle Forze Armate dovrebbe fare ora è sospendere lo stato di emergenza e non proibirci di protestare”.
Voci che restituiscono parte dei problemi di una comunità divisa tra chi vuole tornare alla propria quotidianità e chi sente che la strada per un vero cambiamento sociale è ancora lunga.
Ieri sera è stato reso pubblico l’ultimo messaggio del Consiglio Supremo delle Forze Armate – ancora non è stata rilasciata la dichiarazione costituzionale che dovrebbe regolare il paese durante il periodo di transizione. Nel messaggio di ieri si legge che il Consiglio potrebbe postporre le elezioni presidenziali di un anno. In quel caso, l’Egitto dovrebbe aspettare fino al 2012 per conoscere il suo nuovo presidente. Uno scenario che apre molti interrogativi e rende lecito il sospetto di Badrawi, segretario del nuovo Wafd: che senso ha avuto correre al referendum costituzionale il 19 marzo se si dovrà aspettare ancora un anno per le elezioni presidenziali?
In ogni caso, il margine di tempo potrebbe facilitare l’organizzazione delle nuove forze partitiche, ma allo stesso tempo significherebbe estendere il controllo militare sulla politica egiziana per un altro anno. Il tutto con una costituzione che, dopo il referendum che ha visto il “si” vincere con il 77 percento dei consensi, risulta solo parzialmente emendata. Un risultato insoddisfacente per buona parte del panorama politico egiziano che chiede una costituzione nuova.
scritto per Peace Reporter da Silvia Mollicchi – da Il Cairo
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