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Elezioni in Tunisia: assemblea costituente o referendum?

 

Sono trascorsi circa nove mesi da quel giorno e la Tunisia post-Ben Ali ha continuato a configurarsi come uno straordinario laboratorio politico alternando alle giornate insurrezionali lunghe fasi estensive di micro-lotte e auto-organizzazione, fino ad arrivare alle elezioni della costituente che il 9 novembre aprirà la sua prima seduta assembleare. Il risultato vede un’affluenza maggiore ad ogni aspettativa, si parla di almeno l’80% di votanti sull’intera popolazione, e la preferenza maggioritaria si è orientata sul movimento islamista, così detto moderato, Ennahda. In prima battuta sono cifre che sorprendono un po’ tutti gli analisti che durante le iscrizioni alle elezioni avevano suonato l’allarme rosso dopo aver contato solo il 40% degli elettori firmare per ricevere la scheda elettorale. Il flop clamoroso di quell’iniziativa realizzata dall’Alta Istanza per il Perseguimento degli Obiettivi della Rivoluzione aveva fatto correre ai ripari le istituzioni e il nascente sistema dei partiti: con una serie di decreti legge veniva reso possibile votare anche senza essersi precedentemente iscritti.

 

La campagna elettorale si è giocata tutta sul contrasto tra islamisti e modernisti aprendo uno spazio pubblico dove Ennahda l’ha fatta da padrone. Il partito è riuscito, con un linguaggio semplice e diretto, a convincere della bontà delle proprie intenzioni rispetto al rapporto tra stato e religione, approfittando delle sporadiche iniziative di piccoli gruppi salafiti per occupare con il proprio discorso ogni dibattito legato alla religione esplicitando le sue “ragionevoli” posizioni moderate.

La compagine partitica di sinistra ed anche parte della società civile, accettando ed entrando nella polemica, si è fin da subito piazzata su una posizione difensiva e subalterna che non poteva fare altro che avere lo Statuto della persona di Bourguiba come punto di riferimento per dare legittimità al proprio discorso laico e progressista (statuto che va ricordato è stato sempre presente anche nella retorica del regime di Ben Ali). Mentre il dibattito sulla laicità e l’islam egemonizzava ogni discorso politico Ennahda allestiva i propri presidi sociali e politici dai quartieri popolari fino alle professioni, occupando molti degli spazi lasciati vuoti dal disgregarsi dell’RCD. Godendo di ampie risorse finanziarie e mediatiche provenienti dai così detti paesi moderati del Golfo e non solo, il movimento islamista è riuscito a garantirsi e a sviluppare una presenza importante nei nodi centrali della vita quotidiana del paese magrebino, dalla periferia alle élites imprenditoriali.

 

Nel comparare i programmi elettorali delle più autorevoli formazioni politiche in campo nella tornata, da sinistra a destra -considerando Ennahda, il CPR (formazione centrista), Ettakatol e PDP (entrambi di centro-sinistra -partiti che comunque si assicurano una seppur minima rappresentanza nell’assemblea costituente-)- l’elemento sorprendente è la somiglianza delle proposte in materia economica, di politiche di sviluppo, e di cooperazione internazionale che convergono tutte nell’assunzione dei dogmi del sistema neoliberista in crisi. Ancora più lampante è che in fondo non si distanziano per niente dai documenti con cui si concludevano i congressi dell’RCD benedetti dall’intervento conclusivo del Rais di Cartagine. L’ipotesi che ci sembra prendere forma dai primi dati delle elezioni è che in Tunisia si sia votato non per la costituente, ma per un referendum imposto dal governo di transizione su islamismo radicale, islamismo moderato e laicità. Il risultato prevedibile non poteva che far battere le mani alla Clinton e alla Ashton, che da un pezzo avevano indicato in Ennahda il loro referente. Un corpo politico capace di far transitare la Tunisia non già da un regime dispotico e dittatoriale verso nuove forme di organizzazione politica ed economica democratica ed egualitaria, bensì il migliore strumento per far transitare il paese nella crisi globale secondo gli interessi delle élites. D’altronde per portare a termine questa impresa non ci si poteva che affidare ad una forza politica capace di imporre il ritorno all’ordine e alla pace sociale alternando repressione e “buon senso” religioso.

 

La sinistra organizzata nei partiti, sia essa riformista o di ispirazione rivoluzionaria, non ha saputo cogliere nell’indizione della costituente, per giunta da loro stessi reclamata, lo spazio e il tempo del possibile, l’occasione per perseguire i propri fini politici attraversando gli spazi enormi aperti con sforzo titanico dal movimento sociale rivoluzionario. Nell’avvicinarsi alla costituente non ha colto il tempo dell’accumulazione di forza politica abbandonando quei soggetti sociali, il proletariato giovanile metropolitano e del centro della Tunisia tra tutti, a lottare contro la reazione in completa solitudine, forte solo delle proprie forme di autorganizzazione. Non è un caso che Arbri Kadri , portavoce dell’Unione dei Diplomati Disoccupati, coordinamento di lotta che unisce decine di migliaia di disoccupati tunisini, ha commentato tre giorni fa l’arrivo della costituente dichiarando che “queste elezioni non cambieranno nulla per noi. Personalmente non andrò a votare”, dando indicazione di boicottare l’appuntamento elettorale. Così come Lina Ben Mehmmi, la giovanissima blogger candidata al Nobel per la pace, che in sintonia con molti cyberattivisti ha invitato ad astenersi dal voto. Le diverse formazioni partitiche della sinistra, seppur in alcuni casi provenienti  da storie di lotta contro il regime di straordinaria coerenza e coraggio, sono arrivate impreparate e incapaci di incidere su un appuntamento elettorale il cui orientamento sarebbe dovuto essere ribaltato fin da subito: non un dibattito su islam sì/islam no, ma quali forme di organizzazione politica, sociale, economica fossero coerenti con gli obiettivi della rivoluzione tunisina. Proprio come la piazza partecipata da decine di migliaia di persone aveva più volte indicato, nei tentativi di conquista della terza Casbah, in decine di cortei e continue contestazioni al governo di transizione: “andare fino infondo e non tornare indietro!”, si diceva e si dice ancora. Ma quegli slogan sono rimasti inascoltati da quelle forze politiche che almeno avrebbero dovuto farsene interpreti o traduttori, al contrario proprio come durante le insurrezioni di dicembre e gennaio i partiti sono stati distanti dai movimenti e spesso sordi alle differenti rivendicazioni. Ma questo vale anche per Ennahda che ad esempio durante l’ultima imponente manifestazione nella capitale ha preferito sfilare con solo qualche portavoce al corteo di un migliaio di manifestanti indetto dalla centrale sindacale insieme ad altri esponenti di partiti della sinistra, mentre la piazza dei giovani proletari e degli avvocati si riempiva di manifestanti e tentava di raggiungere il centro città subendo cariche, lacrimogeni e arresti. Altro che “trasparenza, tranquillità e serenità” del periodo pre-elettorale come dichiarato dalla Ashton: la repressione è stata ed è dura, solo che nel mondo come in Tunisia, e compresi i partiti di sinistra, si è fatto finta di non vedere e sentire.

 

 

Il voto che ha premiato la formazione islamista si può dunque anche leggere come un voto di protesta per un referendum imposto in materia di islam e laicità proprio mentre la piazza aveva ed ha tutt’altri bisogni politici da soddisfare. Non sorprende infatti che liste come quella di El Aridha, organizzata in tutta fretta da un “fuoriuscito” di Ennahda, abbia raccolto centinaia di voti nelle regioni del centro della Tunisia dove più forte è il senso di tradimento degli obiettivi della rivoluzione per cui quelle terre hanno versato un grande contributo di sangue. Hachmi ElHamdi, leader di questa lista, ha svolto una campagna elettorale tutta giocata su un mix di populismo ed islamismo, godendo oltre che delle sue personali fortune, anche dell’appoggio economico di una buona parte della rete del vecchio RCD. Il paradosso vuole che a sostenerlo siano state proprio le regioni madre della rivoluzione a cui è piaciuto il tono aggressivo e sfacciato del candidato che ha promesso “pane ed elettricità gratis per tutti!”, e la campagna arrogante svolta a suon di quattrini arrivati da partner ben simulati quanto (per ora) innominabili. A suo dire Hachmi ElHamdi sarà presidente della Tunisia ben presto con l’obiettivo di scacciare corrotti e politici. Il paradosso di Sidi Bouzid e delle preferenze date a El Aridha può essere forse una parziale spiegazione del risultato complessivo delle elezioni: una sonora punizione alla sinistra e al centro-sinistra per aver accettato che la costituente si tramutasse in un referendum sulla religione e non si qualificasse fin da subito come spazio per discutere le forme di riorganizzazione della società e distribuzione delle ricchezze come reclamato senza soste dalla piazza tunisina.

Ed a questo punto appare come qualcosa di più di un semplice invito al boicottaggio delle elezioni, la dichirazione del portavoce dell’Unione dei Diplomati Disoccupati… viene infatti il dubbio che mentre all’assemblea costituente discuteranno per mesi sul primo articolo della costituzione (la Tunisia è un paese musulmano o no?), il proletariato giovanile tunisino e i suoi compagni di sempre potrebbero già essere altrove, magari in una nuova Casbah oppure a lottare contro le frontiere della Fortezza Europa.

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