Elezioni in Ucraina, tra riposizionamenti e venti di guerra
Il primo dato che salta all’occhio è ovviamente quello della scarsa affluenza alle urne, che ha di poco superato il 50% degli aventi diritto, in una situazione in cui pesa certamente l’annessione della Crimea e il mancato voto dei distretti del Donbass, ma in cui comunque la partecipazione alla tornata elettorale non sembra essere stata entusiasmante nemmeno nelle regioni dell’ovest, anche laddove le richieste di riforme radicali sponsorizzate dal Majdan avevano avuto maggiore protagonismo.
Le previsioni che davano il Blocco dell’attuale presidente-oligarca Poroshenko in netto vantaggio si sono però rivelate errate. Le proiezioni mostrano infatti un sostanziale testa a testa tra quest’ultimo e il Fronte Popolare del premier uscente Yatseniuk (23% contro 21%), partito fondato poco prima delle elezioni e dalle posizioni speculari a quelle del Blocco Poroshenko. La partita si gioca non tanto a livello ideologico – entrambi i partiti sono fermamente filo-UE e hanno promosso fino ad oggi l’operazione antiterrorismo nel sudest – quanto sulla divergenza di prospettive rispetto alla gestione delle Repubbliche separatiste filorusse. Se da un lato Poroshenko rappresenta coloro che vedono nella tregua siglata a Minsk il mese scorso un buon punto di partenza per arrivare ad una soluzione diplomatica del conflitto, dall’altro Yatseniuk guida una coalizione composta da personaggi estremamente agguerriti sul fronte delle operazioni militari (compresi alcuni generali dei battaglioni nazionalisti) e che vorrebbero dare una svolta definitiva all’offensiva nel Donbass concentrando tutte le forze in modo da ottenere una vittoria in tempi rapidi.
Ovviamente il risultato elettorale, qualora venisse confermato, mette qualche bastone tra le ruote a Poroshenko, che si troverebbe quasi obbligato a dover nuovamente cedere il posto di premier all’avversario e a dover ritrattare in qualche modo gli accordi siglati con Putin (anche se, non ufficialmente, gli scontri a Donetsk e Lugansk sono continuati quasi quotidianamente fino ad oggi).
La terza formazione sembra invece essere Samopomich, fondata dal sindaco di Leopoli, Sadovy, e apparentemente estranea sia all’ambiente oligarchico che a quello più diretttamente vicino a posizioni europeiste, anche se presenta nelle sue liste i rappresentanti del famigerato battaglione Donbass. Il Blocco di Opposizione, residuo quantomai effimero del Partito delle Regioni del deposto presidente Yanukovich, arriva al 7,6% e soffre evidentemente dell’assenza del suo storico bacino elettorale, così come il Partito Comunista d’Ucraina (2%) costretto ad una campagna elettorale depotenziata e in parte sabotata, che si trova a pagare per il sostegno dato all’ultimo governo durante le proteste di piazza Majdan.
Molto al di sotto delle aspettative il Partito Radicale dell’ultra nazionalista Olegh Liashko (6,4%), dato fino a pochi giorni fa come seconda forza del paese; a questo fa eco anche il non brillante risultato dei nazional-socialisti di Svoboda (6,3% contro il 10,2% del 2012) a cui si può legare il risicatissimo 3% dei neonazisti di Pravy Sektor, una delle forze capaci di imporsi nelle ultime fasi del Majdan e rapidamente assurta a simbolo della degenerazione neofascista della politica ucraina. Lungi dal volere depotenziare il ruolo e l’incisività di queste forze, occorre però realisticamente parlare di organizzazioni molto brave a rendersi protagoniste dello spazio mediatico e in quello militare-militante (molti dei loro appartenenti sono accusati di violazioni dei diritti umani nel corso delle operazioni di guerra), un po’ meno ad incidere realmente nell’agenda politica di governo. Il vero punto di forza dell’estrema destra ucraina rimane comunque nella capacità di mobilitarsi in forze in occasione di determinate occasioni (come l’assedio al Parlamento di alcune settimane fa), ottenendo così grande visibilità in modo da mettere in evidenza alcune delle richieste più radicali (abolizione del russo, esaltazione del collaboratore nazista Stepan Bandera, ecc…). Oltre a ciò è bene individuare nella massiccia presenza di estremisti nei battaglioni volontari che combattono nel Donbass, finanziati dalle oligarchie locali, un reale fattore di destabilizzazione del paese nel momento in cui queste centinaia di uomini armati dovessero aumentare la loro influenza in caso di una recrudescenza della guerra.
In questo scenario disorganico e frammentario si inseriscono le variabili indipendenti (o quasi) delle Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk, le quali dovrebbero andare al voto il 2 novembre prossimo (in contrasto con gli accordi di Minsk che avevano decretato come data il 7). Anche qui lo scenario sembra porsi nei termini di una riconferma degli attuali vertici di potere, rappresentati quasi nella totalità da esponenti del nazionalismo filorusso e da cittadini russi legati a doppio filo con organizzazioni e istituzioni dipendenti da Mosca.
Nel complesso si può dunque parlare di un riposizionamento tattico dell’oligarchia ucraina, che dopo avere rapidamente liquidato l’ingombrante ex alleato Yanukovich (con tutto il sistema di potere che gli ruotava attorno), si mostra ora ripulita e intenzionata a proseguire il processo di integrazione con l’Unione Europea, ovviamente tenendo sempre come ultima campana l’establishment della Casa Bianca che tanto si è premurato nel gestire “da esterno” la degenerazione delle proteste ucraine. Se ad avere la meglio saranno le pulsioni più militariste del nuovo esecutivo o la rete di alleanze tessuta da Poroshenko in questi mesi è difficile a dirsi, così come resta l’incognita dello statuto di autonomia promesso alle repubbliche separatiste. In linea di massima si prospetta un momentaneo congelamento del conflitto che però non è da ritenersi del tutto concluso fino a quando le variabili in campo resteranno tanto numerose e differenziate.
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