Gli operai si organizzano. Alla faccia dei sindacati
Chi ancora pensa ai cinesi come una popolazione di oltre un miliardo di sudditi probabilmente si sbaglia. Sotto la coltre ufficiale imposta dalla severità del Partito si agitano molti fenomeni sociali.
E mentre tutti aspettano una botta di vita dalla classe media, stretta tra inflazione e prezzi delle case alle stelle, ecco spuntare gli operai.
Ogni giorno un nuovo sciopero, una mobilitazione: vecchie e nuove generazioni di lavoratori cinesi che si incontrano sul terreno di spontanee rivendicazioni, salariali e di sicurezza sociale.
Il centro delle proteste è il Guangdong, polmone economico della Cina, che da solo costituisce un quarto delle esportazioni del paese e che da sempre costituisce il modello economico liberale, in contrasto con quello più statale di Chongqing.
Non a caso i leader del Partito nelle due zone sono dati come prossimi membri del Politburo e come duellanti sul futuro modello di sviluppo cinese.
La Cina, però, rallenta anche a causa della crisi economica europea e statunitense e a farne le spese sono gli operai. Nonostante gli aumenti previsti ad inizio d’anno per quanto riguarda i salari minimi, le condizioni sono ancora proibitive.
Con l’inflazione che avanza, 200 euro di stipendio medio al mese non bastano più. Perché sono stati alzati i salari minimi, ma ai primi sintomi di crisi le aziende hanno chiuso i rubinetti degli straordinari, vera e proprie fonte di quel surplus vitale per la classe operaia cinese.
In mezzo infatti, ci sono le aziende, in crisi di credito per la stretta ai prestiti bancari attuata dal governo per placare l’inflazione e la paventata possibilità di nuove tasse governative. Alcuni falliscono, altri provano a spostarsi per cercare manodopera a prezzi ancora più bassi.
In alcuni casi, come la recente protesta presso uno stabilimento che produce per Hitachi, a Shenzhen, gli operai hanno denunciato una riduzione dei salari mensili da 4mila a 3mila rmb (poco più di 300 euro).
Trasporti, elettronica, sanità sono tanti i settori all’interno dei quali si sono sviluppate lotte e scioperi. Per lo più sui media cinesi si accenna agli scioperi nelle aziende straniere: Pepsi, Hitachi, Hi-P e la singaporeana che produce per Apple e Motorola.
Secondo un attivista del lavoro in Cina, raggiunto telefonicamente e appartenente ad una ong di Hong Kong, «la maggior parte delle manifestazioni sono avvenute all’interno di aziende straniere, ma sappiamo per certo di proteste anche in fabbriche cinesi private e dello stato che riguardano principalmente i settori dei trasporti e della sanità»
Interessante anche la composizione sociale di chi protesta: «i più giovani sono in prima linea nella protesta, ma ci sono anche anziani coinvolti, concentrati su temi di sicurezza sociale e compensazioni»
Due generazioni a confronto, con i più giovani che ormai utilizzano gli strumenti dei social network on line, per creare forme spontanee di lotta, focalizzata su rivendicazioni per lo più di carattere salariale: «per lo più – spiega l’attivista – vengono chiesti aumenti salariali, ma ci sono anche dispute sugli straordinari, i pagamenti dei contributi, bonus e richieste di migliori condizioni di lavoro. Oltre a richieste di trattamenti migliori da parte dei manager delle aziende. Il fatto principale riguarda in ogni caso i salari che in molti casi sono stati ridotti a causa della riduzione del pagamento degli straordinari».
All’Hitachi ad esempio, i lavoratori, per lo più donne, avevano interrotto le trattative con la dirigenza al grido di «dovete darci il denaro» e cercando forme autonome di organizzazione; i sindacati ufficiali, infatti, sono completamente assenti nelle dinamiche di lotta.
«Le azioni di sciopero non sono state organizzate dai sindacati ufficiali, ma sono nati per lo più in modo spontaneo, con un largo utilizzo anche di strumenti on line. I sindacati ufficiali non supporteranno mai gli scioperi, presi come sono per cercare una mediazione costante con le proprietà».
Di Simone Pieranni, pubblicato su ChinaFiles ed Il Fatto Quotidiano
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