Il Cile dopo la Costituente: Quando si svuotano i grandi viali
“Alla fine nulla è cambiato”, tweetta Daniel Jadue, sindaco di Recoleta e membro del governativo Partito Comunista del Cile, commentando le immagini della repressione del 18 ottobre, quando i manifestanti commemoravano a Plaza Dignidad i tre anni della rivolta. “Ministra Carolina Toha, come si spiega che usiate le stesse pratiche di Piñera?”, conclude il tweet [1].
Di Raúl Zibechi, traduzione a cura di Comitato Carlos Fonseca
Quel giorno il governo ha dispiegato nelle strade più di 25.000 agenti per “controllare l’ordine pubblico”. Le mobilitazioni sono terminate con 195 arresti, 42 feriti e il saccheggio di 15 locali commerciali. Boric ha elogiato il lavoro dei Carabinieri: “Voglio essere molto chiaro ed esplicito, avete non solo tutto il nostro rispetto, ma tutto il nostro sostegno per la difesa dell’ordine pubblico e per la lotta frontale alla delinquenza”.
Rodrigo Bustos, direttore esecutivo di Amnesty International Chile ha denunciato che nel terzo anniversario della rivolta “soltanto l’0,1% delle denunce per violazione dei diritti umani sono finite con una sentenza di condanna”. Delle più di 10 mila denunce dall’inizio della rivolta, soltanto 16 di queste cause penali sono terminate con una sentenza di condanna [2].
L’indulto alle persone che furono private della libertà per la repressione poliziesca era stato una delle priorità di Boric prima di giungere alla Presidenza. Nonostante ciò, a tre anni, molti di loro continuano ad essere detenuti. Secondo Radio Universidad de Chile, l’11 marzo 2022, giorno dell’insediamento di Boric, erano 211 le persone prigioniere per cause relative alle manifestazioni avvenute tra il 18 ottobre 2019 e il 30 marzo 2021. Di loro, 144 si trovano in prigione preventiva e altre 67 hanno sentenze definitive.
Le domande si accumulano quando alleati molto vicini del governo di Boric presentano critiche così forti, niente meno che su un aspetto così delicato come la repressione e i prigionieri politici. L’osservazione di Jadue potrebbe estendersi al mondo mapuche, dove il governo Boric ha aumentato la militarizzazione, con una maggiore presenza di uomini in divisa di quella che ci fu sotto il governo di Piñera. Non sono stati liberati i prigionieri della rivolta ed è stato ristabilito lo stato d’emergenza nel Wall Mapu, mostrando una chiara continuità con i precedenti governi.
Di fronte alla detenzione del suo portavoce, Héctor Llaitul, il Coordinamento Arauco Malleco (CAM) ha affermato che non dialogherà con il governo “se non è per territorio e autonomia”, che continueranno a recuperare terre e che continueranno a lottare contro lo stato coloniale e la sua politica di integrazione forzata. “O lottiamo veramente per la ricostruzione nazionale mapuche o è solo un discorso e una pressione per ricevere briciole che offre lo stato” [3].
Il CAM denuncia quello che considera un governo di continuità con quello che è stato la Concertazione neoliberale, che “pone una volta di più la propria amministrazione al servizio delle oligarchie e dei gruppi economici che hanno i loro interessi posti nel nostro territorio ancestrale mapuche”. Per questo motivo, rifiuta “il dialogo integrazionista e plurinazionale che richiede, per essere possibile, di lasciare intatti gli interessi del grande capitale nel nostro territorio” e sottolineano che lavorano ad approfondire il proprio progetto storico che gira intorno al recupero dei territori.
Sconfitta o ripiegamento?
Dalla contundente sconfitta nel referendum costituzionale del 4 settembre, i movimenti sociali sembrano sconcertati, quasi tanto come la conservatrice classe politica delle sinistre. Il Rifiuto ha ottenuto il 62%, ha vinto in tutte le regioni, con una differenza di 3 a 1 nell’Araucanía e di solo dieci punti nella Regione Metropolitana di Santiago e a Valparaíso.
Lo storico Sergio Grez, che è sempre stato molto critico verso il processo costituente, ha analizzato tra le cause della sconfitta dell’Approvo, “il voto di castigo al governo Boric e alle sue politiche di continuismo neoliberale, il rifiuto degli adempimenti della Convenzione Costituzionale e di alcuni convenzionali in particolare, una reazione di tipo conservatore (ma non necessariamente di “destra”) di vaste frange della popolazione, specialmente dei settori popolari, di fronte a proposte del progetto di Costituzione come la plurinazionalità, il diritto all’aborto apparentemente senza alcun limite (…) e il linguaggio inclusivo impiegato, estraneo all’immensa maggioranza della popolazione” [4].
Considera che i temi “identitari” (ambientalismo, femminismo, plurinazionalità, regionalismo e territori) “non hanno generato adesione al di là delle rispettive nicchie” e gli sembra probabile che “il modo in cui si sono tradotte le rivendicazioni di questi movimenti nel progetto costituzionale abbia generato più rifiuto che adesione”.
Nei fatti, il Rifiuto ha vinto con un ampio margine nei distretti popolari, nelle cosiddette “zone di sacrificio” ambientale, tra la popolazione indigena, nelle regioni minerarie e nelle carceri, dato che “le norme costituzionali proposte e presentate come le più avanzate del pianeta, che si supponeva li avrebbero beneficiati, non cambiavano assolutamente per nulla le condizioni reali di vita di questi e di altri settori della popolazione”, insiste Grez.
Bisognerebbe aggiungere due questioni: il voto obbligatorio e la ripida caduta nell’approvazione di Boric. In effetti, l’istituto d’opinione pubblica Cadem rilevò una rapida erosione del presidente, al punto che in due mesi aveva più disapprovazione che approvazione. A settembre, mese del referendum, “mediamente il 37% di approvazione e il 57% di disapprovazione, essendo questo il suo peggiore mese da quando si era insediato l’11 marzo” [5]. Già in ottobre, solo il 27% approva Boric e il 65% lo rifiuta.
Il voto obbligatorio, un’ossessione delle sinistre in vari paesi, ha giocato chiaramente contro. L’affluenza è aumentata da meno del 50% in diverse elezioni precedenti, all’86% nel referendum. Ma dei 5,4 milioni di nuovi voti emessi, il 96% ha optato per il rifiuto. È certo che la destra politica e quella mediatica abbiano giocato un ruolo importante mentendo sull’ “estremismo” della nuova Costituzione, che abbiano creato un clima di confusione tra ampi settori della popolazione [6].
Nonostante ciò, la cosa più grave è la valutazione della popolazione sulla repressione e sugli apparati armati, a tre anni dalla rivolta: “Relativamente all’uso della forza da parte dei Carabinieri e delle forze armate durante l’esplosione, oggi il 58% considera che questa fu proporzionale data la violenza che c’era nelle strade, 31 punti di più che nel 2019 quando il 69% pensava che fosse stata eccessiva” [7].
Buona parte degli analisti considera che la Convenzione Costituente si è isolata dai movimenti e che questi non hanno nemmeno fatto pressione e vigilato sui convenzionali. Di conseguenza, continua Grez, “in un clima di smobilitazione e riflusso, l’organismo incaricato di redigere il progetto di una nuova Costituzione si è parlamentarizzato, ha funzionato in base a logiche simili a quelle del Congresso Nazionale e si è distanziato dalla base sociale, facilitando le campagne di discredito dei settori conservatori”.
Interminabile svolta a destra
La reazione iniziale di Boric è stata di rimodellare una parte del suo gabinetto. Sono caduti la ministra dell’Interno e della Sicurezza Pubblica, Izkia Siches, e il Segretario Generale della Presidenza, Giorgio Jackson, che facevano parte del nucleo duro del presidente, e sono stati sostituiti da figure della Concertazione. L’Interno è passato a Carolina Tohá, ex ministra della Concertazione, aumentando la già significativa presenza di esponenti della “vecchia politica”, contro la quale era iniziata la rivolta.
La svolta a destra minaccia di spazzare via la resistenza dei movimenti sociali che in massa chiesero la non approvazione del trattato di libero commercio TPP-11 (Trattato Integrale e Progressista di Associazione Transpacifico) formato da Australia, Brunei, Canada, Cile, Malesia, Messico, Giappone, Nuova Zelanda, Perú, Singapore e Vietnam. Al riguardo Boric ha cambiato d’opinione: “Contraddicendo le sue stesse affermazioni circa i rischi e i danni connessi all’adesione del Cile all’accordo politico e commerciale TPP-11, il governo di Gabriel Boric ha resuscitato l’interesse per quello, che sembrava essere stato sfrattato alla fine del periodo di Sebastián Piñera” [8].
L’Osservatorio Latinoamericano dei Conflitti Ambientali (OLCA), sostiene che il trattato “è una priorità dei grandi gruppi imprenditoriali e delle compagnie transnazionali” e denuncia i costi che avrà “per i territori e i settori più vulnerabili come le/i lavoratori, donne, giovani e popoli indigeni”. Aggiunge che “metterà a rischio conquiste lavorative fondamentali, come il post partum, o le vacanze pagate”, che i megaprogetti che include “ci assicurano più siccità e saccheggio, esaurendo e contaminando le scarse fonti d’acqua” e termina affermando che “la crisi di democrazia e di partecipazione non si risolve tra quattro pareti cedendo di fronte alla pressione dei poteri di fatto ed economici” [9].
La crescente militarizzazione del Cile è uno degli aspetti più problematici dell’attuale governo, che va molto al di là dei precedenti presidenti neoliberali. Grez stima che “Boric ha tentato qualcosa che neppure il governo di destra di Piñera si era azzardato a fare: promuovere un progetto di legge affinché le forze armate possano vigilare la cosiddetta “infrastruttura critica”, senza la necessità di chiedere l’autorizzazione dello Stato d’Emergenza da parte del Parlamento; questo è un livello di militarizzazione sognato ma non raggiunto dalla destra classica”.
Si spengono le fiammate
Il ruolo di Boric durante la rivolta consistette nell’annichilirla, un impegno che gli dette i suoi frutti giacché la destra gli permise di diventare presidente e i movimenti non poterono apprezzare allora la profondità le sue intenzioni. Nel novembre del 2019, alcune settimane dopo l’inizio della maggiore rivolta nella storia del paese, decise di fare i passi necessari per indebolire la protesta che appena cominciava.
Invece di incoraggiare che la mobilitazione popolare sotterrasse il regime post-pinochetista e finisse con il delegittimare i suoi rappresentanti, Boric decise di salvarli e di isolare coloro che continuavano a mobilitarsi. Per questo firmò un accordo con la destra e il progressismo per una “nuova Costituzione”, senza consultare il proprio partito che considerò di espellerlo [10]. Da lì in poi, la sorte della rivolta era segnata. L’agenda politica mutò radicalmente: dalla richiesta della rinuncia del presidente di destra Sebastián Piñera, si passò a dibattere la convocazione dell’assemblea costituente.
La domanda che ci facciamo è perché l’ampio movimento sociale cileno accettò di integrarsi al processo costituente, diluendo i suoi poteri e le sue capacità d’azione collettiva che così buoni risultati stava dando. In effetti, con la notevole eccezione dei collettivi mapuche autonomisti e dell’ACES (Assemblea Coordinatrice degli Studenti Secondari), il grosso del movimento accettò di trasferire la lotta sul terreno legale ed elettorale, accettando di fatto l’organigramma ideato dalle istituzioni e dalla destra.
“Il processo costituente nasce a seguito di un accordo di partiti politici per cercare di ristabilire l’ordine durante la rivolta”, spiega Antonia Rolland dell’ACES [11]. L’organizzazione studentesca non accettò mai il cammino costituzionale come sostituto della lotta di strada, anche se appoggiò i nuovi diritti contemplati nel testo e fecero appello per l’Approvo, sapendo che con quelli non si modifica il modello neoliberale.
Questo ci indica che coloro che non ebbero fiducia nel processo costituente e continueranno nella lotta, sono fondamentalmente i due settori che stavano lottando intensamente da prima della rivolta del 2019: il settore autonomista del popolo mapuche e i secondari organizzati che dal Mochilazo del 2001 continuarono a stare in strada. Ci sono molti altri per cento: un’infinità di gruppi lungo il Cile che stanno organizzandosi nei propri quartieri contro il saccheggio delle imprese minerarie, la difesa dell’ambiente, contro il patriarcato e la violenza poliziesca, per i diritti nella salute ed educazione, per riscattare le pensioni sequestrate dal mercato finanziario. E altro.
Ma sono stati questi due collettivi (mapuche e secondari) quelli che hanno incarnato sfide di lunga durata contro lo stato e il capitale. Durante la rivolta si aggregarono centinaia di migliaia, forse milioni, alle marce e alle manifestazione per molto più tempo di quanto sperato e sperabile. Ma quando a questi milioni furono aperti cammini meno costosi (migliaia di feriti e detenuti, più di 30 morti, 400 occhi esplosi), scelsero di prendere la scorciatoia che era quello che indicava il senso comune a coloro che erano da poco aggregati alla lotta.
La seconda questione, complementare alla precedente, è quella che indica lo storico Eric Hobsbawm quando compara il sindacalismo britannico e quello francese: “I movimenti sindacali deboli sogliono rovesciarsi verso l’attivismo politico in cerca di forza addizionale; mentre i forti non devono preoccuparsi in questo senso” [12].
È probabile che la rivolta abbia incontrato dei limiti, come lotta di strada di azione diretta, poiché Piñera resisteva a rinunciare e lanciava l’apparato repressivo contro la popolazione. Una cosa certa è che in molto poco tempo la domanda centrale del movimento passò dalla rinuncia del presidente ad incamminarsi verso la redazione di una nuova Costituzione che sostituisse quella ereditata da Pinochet. Come tante scorciatoie, non ha condotto a nessun luogo interessante, ma ha finito con il rafforzare il regime contro il quale si erano sollevati.
Lontani dallo scommettere su un nuovo processo costituente, i mapuche sono impegnati a continuare a recuperare terre per trasformarle in territori in resistenza, e gli studenti focalizzano le proprie energie nel lavoro organizzativo nei quartieri periferici. È possibile, e desiderabile, che dall’attuale ripiegamento sorgano nuovi apprendistati, si rafforzino le autonomie e si approfondisca la resistenza all’estrattivismo e alla classe politica progressista.
Note
[1] “Chile: aliados cuestionan a Boric por reprimir manifestaciones en el aniversario del estallido social” in https://www.tvpublica.com.ar/post/chile-aliados-cuestionan-a-boric-por-reprimir-manifestaciones-en-el-aniversario-del-estallido-social
[2] El Mostrador, 17 ottobre in https://www.elmostrador.cl/destacado/2022/10/17/rodrigo-bustos-director-ejecutivo-de-amnistia-internacional-chile-y-tercer-aniversario-del-estallido-social-tan-solo-el-001-de-las-denuncias-por-violacion-a-derechos-humanos-ha-terminado-en-sente/
[3] CAM responde, 9 agosto 2022 in https://cctt.cl/2022/08/09/46236/
[4] Intervista a Sergio Grez, El Ciudadano, 18 ottobre 2022 en https://www.elciudadano.com/chile/el-adn-del-acuerdo-del-15-de-noviembre-de-2019-sigue-mas-presente-que-nunca-en-el-proceso-permanente-de-reforma-constitucional-que-vive-chile/10/18/
[5] Cadem.cl, 2 ottobre 2022.
[6] Camila Vergara, “El rechazo de Chile”, El Salto, 11 settembre 2022, en https://www.elsaltodiario.com/chile/new-left-review-rechazo-constitucion-boric
[7] Cadem.cl, 16 ottobre 2022.
[8] Manuel Acuña, “Obituario para un gobierno que no pudo ser”, Rebelion, 11 ottobre 2022 in https://rebelion.org/obituario-para-un-gobierno-que-no-pudo-ser/#_edn3
[9] OLCA, 13 settembre 2022 in https://olca.cl/articulo/nota.php?id=109640
[10] CNN, 15 novembre 2019, in https://www.cnnchile.com/pais/boric-firmo-acuerdo-nueva-constitucion-sin-venia-partido_20191115/
[11] Intervista con Antonia Rollando, in https://desinformemonos.org/caminos-de-abya-yala-antonia-rolland/
[12] Eric Hobsbawm, “Tradiciones obreras” in Gente poco corriente, Barcelona, Crítica, 1999, p. 66.
25/10/2022
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