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Il fronte di Azawi: le Ypg sul cammino di Deir El Zor

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Il confine tra Siria liberata e Siria occupata dall’Is appare come una terra di nessuno, una grande pianura disabitata, dove è possibile non scorgere nessuna forma di vita per decine di chilometri. L’auto su cui viaggiamo è costretta a uscire dalla carreggiata e percorrere spicchi di deserto quando sulla strada incrociamo la carcassa di un’autobomba. Barricate di terriccio e check-point improvvisati si susseguono quasi ad ogni chilometro, finendo per essere tutt’uno con l’arido paesaggio. Una piccola costruzione di cemento ospita, in mezzo al nulla, un negozietto di generi di prima necessità, circondato da un gregge di pecore. I combattenti delle Ypg scendono dall’auto per comprare bevande energetiche e sigarette. Il ragazzino che gliele sporge avrà sette o otto anni. Negli ultimi cinque deve aver visto soltanto soldati e guerriglieri alternarsi come conquistatori in questa zona disabitata: regime, Fsa, Al-Qaeda, stato islamico, Ypg-Ypj. Fino a un paio di settimane fa, quando l’Is è stato costretto a retrocedere di alcuni chilometri, era probabilmente impossibile, per lui e per le donne che ridono imbarazzate a fianco al negozio, vedere persone dai tratti occidentali arrivare fin qui.

Il panorama desertico restituisce un senso di apertura estetica in totale contrasto con l’atmosfera di guerra, in cui colpi di mortaio possono provenire dai villaggi all’orizzonte, o attacchi di terra da Deir El Zor. Impossibile non chiedersi come questa linea invisibile sia considerata dal lato opposto, dai miliziani che magari ci osservano con il binocolo, incalzati dall’avanzata delle Ypg da nord e accerchiati dalle Sdf a Raqqa, in queste ore sotto attacco del Pkk, delle Ybs, dei peshmerga e dell’esercito di Baghdad anche a Mosul. Improvvisamente il panorama piatto, dai colori chiari, è rotto dalla presenza di una duna, su cui avvertiamo una scena surreale: quattro bambini sui quattro o cinque anni compaiono sulla sua cima, e salutano il nostro veicolo con le due due dita alzate in segno di vittoria. Cosa vorranno dire? Sono felici del passaggio delle Ypg, o avrebbero rivolto quel saluto a qualsiasi miliziano o soldato, perché nati in un mondo in cui gli adulti rivolgono talvolta quel gesto a veicoli pieni zeppi di armi e divise? Difficile dirlo.

A cinquanta chilometri da Deir El Zor, compare un piccolo villaggio di quattro o cinque case disabitate. Le Ypg ci vengono incontro contente, sebbene l’età di molti di loro sia probabilmente diversa da quella che chiunque si aspetterebbe. Sono giovanissimi. Non sono bambini, ma ridono come se lo fossero. Una delle case abbandonate è diventata il loro quartier generale, tipicamente ricoperta di caricatori, kalashnikov, granate, teiere e tappeti. Sui tetti, le mitragliatrici sono pronte per l’uso: gli attacchi dell’Is, ci dicono, avvengono con regolarità; spesso si tratta di colpi di mortaio – il nemico è a due chilometri – ma non mancano le incursioni suicide con camion-bomba e gli assalti in piena regola. Non ci sono trincee, né barriere, muri o sacchi di sabbia: soltanto il deserto separa salafiti da una parte, compagni dall’altra. In un villaggio su questa linea, poco tempo fa, uno di questi attacchi si è risolto in un massacro per le Ypg, ci dice un combattente: quaranta morti. Su un edificio poco distante, una ragazza sorveglia il comando delle Ypj. Una sua compagna ci affida questo messaggio: “Donne in Europa che amate la vita, venite ad aiutarci in Rojava”.

Bextewar, 53 anni, di Hassake, nella sua vita ne ha viste di tutti i colori: ha lavorato come mobiliere in Angola, in Algeria, in Libia, e adesso da tre anni è nelle Ypg. Su un tetto, spiega a Gabar come i partiti alleati dell’Unione Sovietica avessero introdotto riforme secolari in Afghanistan, e come gli Stati Uniti abbiano supportato la creazione della guerriglia islamista grazie alla quale Osama Bin Laden ha poi potuto costituire Al-Qaeda, di cui si fronteggia qui la costola eterodossa, e se possibile più sanguinaria, nata trent’anni dopo. “Noi non desideriamo vendicarci sui nostri prigionieri, semmai rieducarli” dice. Qualcuno interviene, e non è d’accordo: “Sarebbe molto più semplice metter loro una pallottola in testa”. Bextewar non si scompone, spiega con pazienza: “Sono spesso ragazzi di diciotto anni la cui mente è stata plagiata da idee insane, che meritano la possibilità di conoscere un’altra vita”. Quale, gli chiediamo? “Una vita nuova, fatta di pace e democrazia, in cui musulmani, cristiani ed ezidi possano vivere assieme e rispettarsi l’un l’altro”.

Bextewar si trova qui perché “Ocalan ha scritto che quando c’è la guerra del popolo, bisogna unirsi ad essa”. Ciham invece è turco, di Istanbul; ha 23 anni, ed è entusiasta per l’esperienza che ha vissuto a Gezi Park, piazza Taqsim, tre anni fa. “Sono venuto qui perché sono socialista. È normale, sono internazionalista. Qui è come la guerra di Spagna, ci sono i franchisti, gli antifascisti e le brigate internazionali”. Le Ypg sono una forza per il confederalismo, dice, un’idea utile per tutta la Siria. I suoi riferimenti sono Che Guevara, Lenin, Stalin. Stalin uccideva anche i comunisti, facciamo notare per sondare la sua reazione; risponde: “È la politica”. “Noi combattiamo tanto contro Daesh quanto contro il regime siriano: sono espressione dello stesso sistema” continua; e sul supporto della “comunità internazionale” afferma: “Non so cosa stiano facendo, so solo che qua vedo combattenti da tutto il mondo, che vengono e aiutano: europei, americani, australiani. Loro sono il nostro supporto internazionale, anzi internazionalista. Gli stati, e in primis gli Stati Uniti, portano avanti soltanto i loro interessi imperialisti, come la Turchia e l’Italia, ossia gli altri paesi della Nato”.

Gabar interviene, precisa di esser stato a lungo nell’esercito australiano; “Ma non è parte della Nato…”, dice speranzoso Ciham, che si imbarazza quando le sue aspettative vengono deluse: “Questo non va bene!”. Gabar allora ammicca: “Le armi della Nato ti piacciono, però!”, ed entrambi scoppiano a ridere. Gabar non ha nessuna ragione ideologica per essere al fronte: “Ho visto i massacri dell’Isis in televisione, e mi è bastato”. Ha partecipato a decine di battaglie, visto la morte da vicino diverse volte e perso già venti amici, quasi tutti curdi. “Una volta ho dovuto raccogliere i pezzi di uno di loro, la cui auto era saltata su una mina, nell’arco di quaranta metri, e metterli in sacchetti di plastica”. Non ha alcun rispetto per i miliziani dell’Is: “Una volta ne ho interrogato uno con altre Ypg. Aveva trecento dollari in tasca, ha detto che ottengono cento dollari per ogni persona che ammazzano. Non sono idealisti, sono mercenari”. Gabar e Ciham sostengono di aver trovato le prove, nelle abitazioni perquisite, di uso di cocaina ed eroina da parte dei loro nemici.

“Quale religione ammette di violentare e uccidere i bambini?” chiede Gabar, e conclude: “Se ci tengono a morire per la loro causa, sono qui per aiutarli”. Lui stesso ha perso la fede, “un tempo credevo in Dio, ora non più”. Bextewar gli passa un amuleto sottratto a un miliziano caduto, una catenina con al fondo una chiave, la chiave del paradiso. “Quindi se giro questa compaiono cento vergini?” scherza Gabar, e tutti scoppiano a ridere. Bextewar dice di non capire gli occidentali che restano senza moglie. I ragazzi vogliono parlare di mafia e di calcio: “Lucarelli, del Livorno, la curva socialista!”, esclama Ciham. Ogni tanto i compagni esplodono colpi di mitragliatrice verso il deserto, a scopo dissuasivo. “Questo tempo nuvoloso sarebbe perfetto per un loro attacco”. Ciononostante, l’attacco non ha luogo. Lasciamo la truppa mentre gioca a calcio, con le ragazze che si fanno scherzi usando una scavatrice in quello che potrebbe essere il loro ultimo giorno. Riprendiamo la via per Shaddadi. Dopo qualche chilometro, i quattro misteriosi bambini sono ancora nello stesso punto, scesi appena sotto la duna. Rivolgono ancora, alle Ypg, il loro enigmatico saluto.

Dal corrispondente di Radio Onda d’Urto e Infoaut ad Azawa, Siria

 

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