In piazza Tahrir un nuovo weekend di lotta
I due sembrerebbero essere deceduti per soffocamento da lacrimogeni (i famigerati CR?) dopo che le forze della sicurezza di Stato sono entrate nella piazza ed hanno lanciato i gas per sgomberare alcune centinaia di persone che, radunate in punti diversi, avevano trascorso lì la notte. Secondo notizie diffuse su Twitter, invece, la morte dei due sarebbe stata causata da proiettili che li avrebbero colpiti alla testa.
Quale che sia la forma della morte, entrambe sappiamo essere ampiamente probabili dopo le uccisioni doumentate per i gas velenosi il mese scorso e l’uso “normale”, da sempre, di pistole che sparano ad altezza uomo. Lo si vede molto bene nel video che riportiamo qui sotto e che ha fatto il giro del mondo, obbligando molte cancellerie interessate al “mantenimento della calma” (leggi: status quo) a pronunciare parole diplomatiche di condanna.
Il viceministro della Difesa, generale, Adel Emara, ha negato più volte che sia stato fatto “un uso eccessivo della forza” contro i manifestanti cercando invece di scaricara la responsabilità sui manifestanti: “Ci sono informazioni su un piano per incendiare la sede dell’Assemblea del popolo (la camera bassa del Parlamento egiziano) e ci dicono che è in corso un raduno di gente in piazza Tahrir per realizzare questo piano”.
Alla lingua biforcuta delle alte cariche militari egiziani fanno eco le cronache complici e assassine dei media di casa nostra che in questi giorni hanno avuto il coraggio di definire i giovani insorti egiziani “così diversi dai protagonisti della rivoluzione di febbraio” riconosciuti come l’ala buona e presentabile (bloggers, giornalisti…vario ceto medio) … “Oggi si vedono solo i disperati delle baraccopoli del Cairo, estremisti e Ultras delle tifoserie di calcio”… E giù tutto l’orrore degli intellettuali di casa nostra per la distruzione della vecchia bilioteca (la “Cultura”…!).
E già! Chi aveva portato la rivoluzione di gennaio al livello di forza tale da imporre la fuga di Moubarak? Avvocati, bloggers e piccola borghesia cariota non avrebebro potuto raggiungere un granché senza l’apporto dell’inesurible (in numeri e detrminazione) proletariato metropolitano della capitale (proletariato che spesso è anche blogger, ultrà… etc.. essendo queste “categorizzazioni” arbitrarie e artificiali, comode alla controparte).
Per descrivere l’attuale situazione egiziane (forse quella di tutto il nord-Africa) tornano alla mente frasi miliari, da riscoprire come metodo d’analisi storica (di classe), contro le miserie del giornalismo embedded:
“Il governo provvisorio, sorto dalle barricate di febbraio, rispecchiava necessariamente nella sua composizione i diversi partiti che si erano divisa la vittoria. Esso non poteva esser altro che un compromesso tra le diverse classi che insieme avevano abbattuto il trono di luglio, ma i cui interessi erano opposti ed ostili. La sua grande maggioranza era composta di rappresentanti della borghesia. […]
Il proletariato, imponendo la repubblica al governo provvisorio […] occupava d’un colpo il centro della scena […] Ciò che esso aveva conquistato era il terreno della lotta per la propria emancipazione rivoluzionaria, ma non era certamente questa emancipazione”.
(Karl Marx, Le lotte di classe in Francia)
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Video della repressione del 17 dicembre (denuncia con crudezza la violenza delle truppe egiziane nei confronti, soprattutto, delle donne)
Qui di seguito invece la cronaca di sabato nelle parole di Paolo Gerbaudo
(da Il manifesto di domenica 18 dicembre)
Tahrir Brucia Ancora
Il cielo è nero sopra il centro del Cairo. In mezzo a Tahrir, la piazza simbolo della rivoluzione dei 18 giorni, bruciano le tende di plastica dei manifestanti, a cui l’esercito ha appiccato il fuoco. E poco distante su Qasr el-Aini, continua a salire il fumo dalla sede del ministero dei trasporti, da un ufficio del consiglio dei ministri, e dall’Institute d’Egypte, fondato dal Napoleone, invasore nel 1798 -, devastato da una battaglia fatta di pietre, proiettili, bombe molotov, bengala e fuochi artificiali. Se gli scontri pre-elettorali di fine novembre sono stati associati con via Mohammed Mahmoud, che da Tahrir porta al ministero degli interni, questa nuova ondata insurrezionale, sarà ricordata come la battaglia di Qasr el-Aini. È su questa strada, che partendo da Tahrir, costeggia i palazzi del potere da un lato, e Garden City, il quartiere delle ambasciate, dall’altro, che da giovedì sera sono divampati gli scontri tra i militari e i manifestanti, che chiedono un passaggio di consegne immediato dalla giunta militare a un governo civile. Per cercare di porre fine agli scontri, i militari hanno fatto ricorsoalla stessa tattica usata negli scontri di novembre: hanno eretto un muro di blocchi di cemento in mezzo alla strada. Mentre nella nottata sono continuati gli scontri tra polizia e manifestanti, si contavano almeno 16 morti – 9 venerdì, e 7 ieri – oltre a più di 600 feriti. Un bilancio funesto per un paese che attende i risultati del secondo round delle prime elezioni parlamentari dalla caduta di Mubarak, in cui si prevede un nuovo successo dei partiti islamisti. E una sconfitta politica per il nuovo governo presieduto da Kamal Al-Ganzouri. Scelto dai militari per calmare gli animi dopo gli scontri di via Mohammed Mahmoud, alla prima prova di gestione della piazza ha usato gli stessi metodi repressivi adottati il mese scorso, quando 70 manifestanti furono uccisi al Cairo e Alessandria. «Risolverò tutto in 5 minuti», aveva detto Al-Ganzouri, già primo ministro durante l’era Mubarak, promettendo un dialogo con i manifestanti che da fine novembre avevano eretto un accampamento davanti alla sede del consiglio dei ministri per protestare contro il suo insediamento e contro la giunta militare. Invece delle parole di persuasione, sono arrivati prima panini avvelenati distribuiti giovedì sera che hanno mandato all’ospedale 50 persone. E poi nella nottata le bastonate della polizia militare. Per tutta la giornata di venerdì poche migliaia di manifestanti e centinaia militari si sono contesi le poche centinaia di metri da Tahrir alla sede del consiglio dei ministri. Dal tetto di questo palazzo e da quelli circostanti, gruppi di baltaggeya , sgherri usati già da Mubarak per fare il lavoro sporco, hanno buttato in strada mattoni lastre di vetro e mobili. I manifestanti hanno contrattaccato con sassi e bombe molotov, dando alle fiamme alcuni uffici. Ieri la battaglia è continuata, con nuovi uffici incendiati e nuovi morti tra i manifestanti, molti dei quali colpiti da pallottole. Verso mezzogiorno diverse centinaia di soldati hanno fatto irruzione su Tahrir, infierendo su chi era rimasto dietro, tra cui una ragazza col velo, prima pestata e poi denudata in mezzo alla piazza. E dopo aver incendiato le tende dei manifestanti, non hanno risparmiato neppure la moschea di Al-Makram, arrestando diverse persone che vi si erano rifugiate, prima di fare irruzione nei palazzi che costeggiano la piazza a caccia di telecamere e giornalisti. I manifestanti sono stati respinti da Tahrir verso la « corniche » del Nilo, e lungo i ponti Qasr el-Nil e 6 Ottobre, che portano dalla riva destra del Nilo al quartiere-isola di Zamalek. Per tutto il pomeriggio gruppi di soldati, poliziotti in borghese, e abitanti solerti, hanno dato la caccia a sospetti e «provocatori» nel centro del Cairo. Nel tardo pomeriggio alcune centinaia si sono di nuovo radunate a Tahrir e sono ricominciati gli scontri su Qasr-el-Aini. Il pugno duro dell’esercito ha suscitato un coro di proteste tra i partiti politici. Tre membri del consiglio consultivo civile, creato dall’esercito dopo gli scontri di via Mahmoud per rappresentare le forze sociali e politiche, hanno rimesso il loro incarico. Ayman Noor, leader del partito liberale El Ghad el-gedid (Il nuovo domani) ha chiesto la transizione immediata a un governo civile. Critici anche i fratelli musulmani che ieri hanno affermato in un comunicato che l’esercito dovrebbe «chiedere scusa» per la violenza usata contro i manifestanti. Nel secondo round elettorale, che comprende nove governatorati tra cui Giza, Aswan, Menoufiya, Sharqiya, Beheira, Ismailia and Suez, la fratellanza spera di consolidare il trionfo delle votazioni di novembre. Ma teme che la situazione di instabilità che continua a imperversare in Egitto possa offuscare la sua vittoria.
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