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In Senegal i giovani vogliono riappropriarsi del loro paese

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In Senegal continuano le tensioni contro il governo di Macky Sall. Le proteste, che hanno causato 14 vittime tra i civili, sono partite dalla capitale Dakar e hanno coinvolto tutto il paese. Si sono svolte in parallelo all’arresto, il 3 marzo, di Ousmane Sonko, oppositore e leader di Pastef (Patriots of Senegal for Ethics, Work and Fraternity). È stato denunciato per stupro e rilasciato su cauzione l’8 marzo; il suo partito e i sostenitori pensano che l’accusa faccia parte di una strategia per screditarlo. Sonko ha più volte denunciato la corruzione del governo in carica ed è molto popolare.

 

La vicenda di Ousmane Sonko è la scintilla ma non la causa delle proteste. Queste manifestazioni infatti si rivolgono contro un sistema, rappresentato dal presidente in carica, dall’Europa e dalle grandi industrie, accusate di sfruttare il paese e ostacolarne la crescita economica. Non è un caso che a essere bersagliati dai manifestanti siano stati catene di supermercati, distributori di benzina e cabine telefoniche di proprietà di imprese francesi.

Isak è un attivista senegalese: sui social network vuole essere conosciuto solo con il suo nome. Questo perché «voglio solo essere uno strumento: mi batto per avere risultati per il mio paese non nell’immediato, ma per le generazioni future». Ha vissuto per tanti anni in Toscana e ora si trova a Dakar per prendere parte alle manifestazioni e stare vicino alla sua famiglia d’origine. Fa parte di Y ‘en a Marre, un gruppo di musicisti, artisti e giornalisti molto attivo nel denunciare il malgoverno di Sall. Stando ad Amnesty International, sei attivisti del gruppo sono stati arrestati durante le proteste del 5 marzo, fra cui Thiat, rapper e fondatore di Y ‘en a Marre.

Isak spiega che le ragioni politiche della protesta sono marginali. «L’arresto di Sonko ha esacerbato una tensione sociale che c’era già. Noi attivisti abbiamo iniziato a indire manifestazioni pacifiche poco prima di questo fatto. Abbiamo sparso la voce e informato i cittadini tramite i social network, e il governo ha persino deciso di negare l’accesso al web. Abbiamo avuto contatti con Anonymous, che per fortuna ci ha fornito dei Vpn».

Il colonialismo “mascherato” delle grandi multinazionali

I giovani del paese reclamano la partecipazione attiva all’economia, ostacolata dal profitto e dagli interessi delle grandi multinazionali straniere. «La popolazione senegalese è composta per il 70% da giovani; questi ragazzi vogliono vivere e avere le stesse opportunità dei giovani occidentali nel loro paese», spiega Isak. «Hanno capito che ciò che gli permetterebbe di vivere bene in Senegal viene venduto ai paesi europei, o agli Usa».

Proprio per questo motivo, i manifestanti chiedono trasparenza. In particolare sugli accordi del governo di Sall con le grandi imprese: «noi cittadini non li conosciamo e se chiediamo conto veniamo arrestati. Ma li vogliamo vedere e renderli comprensibili a tutti».

 

La protesta ha avuto nel mirino i simboli dello sfruttamento del Senegal da parte dell’Occidente: «Non abbiamo colpito beni che appartengono al paese o ai cittadini, ma quelli di un sistema di appropriazione delle nostre risorse: i distributori di benzina Total, multinazionale francese alla quale è stata venduta gran parte del petrolio estratto qui, rappresentano le imprese che distruggono l’economia dal basso e che non producono alcuna ricchezza».

Ma con gli esempi si potrebbe continuare. Gli accordi di pesca, per esempio: «Quelli che guidano i barconi verso l’Europa sono per la maggior parte pescatori; se decidono di fare gli scafisti è perché non riescono a vivere del loro lavoro in Senegal. Ci sono mega navi che prendono tonnellate di pesce».

I posti di lavoro garantiti da queste grandi imprese non sono sufficienti ad assicurare benessere e affossano l’economia locale. Isak infatti spiega che «se Auchan garantisse anche qui lo stesso livello di ricchezza che produce in Francia, noi non l’attaccheremmo. Il problema è che vendono prodotti a prezzi stracciati, e quindi nessun senegalese è indotto ad aprire un suo supermercato, e se lo apre non potrebbe competere con il costo dei prodotti francesi. È inutile che assumano dieci persone se un altro milione fa la fame».

L’attivista denuncia la permanenza di un sistema coloniale, più subdolo rispetto a quello storicamente conosciuto perché non coinvolge gli Stati, ma i privati. Questi ultimi manovrano i politici con pratiche corruttive. «I nostri governi a partire dalla campagna elettorale fanno accordi per quando si insedieranno; le aziende li finanziano per ottenere, ad esempio, le proroghe dei contratti. Questo per continuare a sfruttare le nostre risorse».

E anche con questa consapevolezza – riappropriarsi della ricchezza che gli viene sottratta ancora oggi – i giovani africani affrontano i viaggi verso l’Europa. «Se io a casa mia ho fame, tu sei il mio vicino e ti appropri del mio cibo, io posso venire a casa tua a mangiare, perché quella è roba mia. È la stessa cosa che pensano i ragazzi africani quando decidono di affrontare un lungo viaggio, anche a rischio della vita».

Nonostante le proteste siano state sedate è forte il desiderio degli attivisti di continuare a tenere accesi i riflettori sul Senegal. Infatti il governo di Sall sta tentando di far passare le manifestazioni come atti terroristici. Isak spiega: «Gli attivisti attualmente vengono segnalati come terroristi. Un ragazzo senegalese con cui collaboriamo e che vive negli Stati Uniti è stato arrestato, su denuncia dello stato senegalese. Gli stessi problemi potrei averli io se decidessi di tornare in Italia; visto che ho partecipato a queste manifestazioni potrei essere segnalato come terrorista alle autorità». Ma per Isak la linea rimane chiara: «Continueremo a combattere e siamo pronti a correre questo rischio».

Da ilmigrante.org

 

 

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