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Intervista ad Hossam El-Hamalawy, un giornalista di parte.

 

Egitto, lotta per una rivoluzione di classe:

intervista a Hossam El-Hamalawi

 

 

“Un piede nella strada, l’altro nello spazio virtuale”. Giornalista, fotoreporter, militante nel partito egiziano dei Socialisti Rivoluzionari. Hossam el-Hamalawi ci racconta la sua rivoluzione, come è nata e come intende portarla avanti. Ma è solo la prima parte.

di Anthony Santilli

 

Cominciamo dalle origini della rivolta egiziana.

Partiamo da un dato di fatto: mentre stiamo parlando, è in corso in Egitto uno sciopero ad oltranza nel settore dei trasporti pubblici, ed anche i professori universitari sono in sciopero. Nelle ultime tre settimane più di mezzo milione di egiziani ha scioperato. Molti hanno percepito la rivoluzione egiziana come ‘la rivoluzione di Facebook’, ma naturalmente vi sono delle radici profonde in questa rivoluzione e i lavoratori hanno svolto un ruolo centrale.

Dal dicembre del 2006 l’Egitto ha attraversato uno dei più lunghi e partecipati periodi di scioperi della sua storia. Si tratta della più forte ondata di mobilitazioni dal lontano 1946. Nemmeno negli anni Settanta vi fu un’ondata di questa portata.

Sin dallo scoppio delle prime rivolte, i lavoratori erano presenti. Solo che inizialmente stavano partecipando come “protestanti” piuttosto che come “lavoratori”. Durante quella prima settimana di rivolte [25/31 gennaio] il governo aveva chiuso fatto chiudere le banche, gli esercizi pubblici e tutte gli impianti industriali. Sembrava così che le manifestazioni di quel periodo non avessero una componente di lavoratori delle fabbriche. Allo stesso tempo però, quando arrivavano notizie di mobilitazioni per esempio nelle zone industriali di Suez, o di Mahalla (el-Kubra) o di Kafr el-Dawwar, subito si sapeva che si trattava principalmente di lavoratori.

Nell’ultima settimana di mobilitazioni [ndr, prima della caduta di Mubarak], a seguito del discorso del rais dove si erano promesse delle concessioni, il governo tentò di normalizzare la situazione attraverso la riapertura degli esercizi pubblici, delle industrie e delle banche. Una volta rientrati, i lavoratori hanno cominciato a protestare, non più solo come cittadini. Non appena sono cominciate le proteste di massa, abbiamo capito che l’era di Mubarak era finita.

 

Cosa successe dopo quel famoso 11 febbraio?

Quando Mubarak fu deposto, l’11 febbraio scorso, molti attivisti della classe media, della rete e dei social network, erano felici e facevano appelli al popolo egiziano affinché ricominciasse a lavorare, per dare una chance al governo di transizione ed all’esercito. Ma per i lavoratori e per le persone di sinistra come me la storia era differente. Vedevamo in questi scioperi di massa il vero inizio della rivoluzione.

Gli scioperi di oggi rappresentano invece una seconda fase. Ci siamo liberati di Mubarak, ma dobbiamo ancora liberarci del regime. Perché in ogni posto di lavoro, in ogni azienda, in ogni università abbiamo dei mini-Mubarak. Il fil rouge che lega tutti questi scioperi è la volontà di liberarsi dalla corruzione, e di quei leader e manager affiliati al regime ed ai servizi di sicurezza. Questi scioperi sono stati denunciati dall’esercito, dai media controllati dallo stato, anche da molte forze politiche che rappresentano la classe media e alta. Hanno accusato i lavoratori di essere avidi, egoisti e di pensare solo a loro stessi.

Nell’aprile scorso l’esercito ha emanato una legge che criminalizza gli scioperi, sottoponendo questo reato al giudizio di tribunali militari. Ciononostante, gli scioperi sono continuati.

 

Ed il governo?

Per me non vi sono distinzioni tra esercito e governo. Essam Sheraf era un membro del PND [ndr, Partito nazional democratico, il partito di Mubarak]. Nonostante sia stato detto che il nome di Essam Sheraf fosse stato portato avanti dagli attivisti, in realtà furono solo alcune fazioni di liberali ad averlo sostenuto. Il problema alla fine è che anche se tu potessi nominarmi primo ministro, nemmeno io potrei fare nulla. Non si tratta dei singoli individui che occupano il potere. Sono i generali dell’esercito che controllano il processo di transizione, in tutti i suoi aspetti.

 

Cosa mi dici delle rivolte scoppiate in tutto il mondo arabo?

Le rivoluzioni sono contagiose, come le sconfitte. E’ come il gioco del domino: tutto è cominciato in Tunisia, poi è stato il momento dell’ Egitto ed ora anche degli altri paesi arabi. Crediamo che la nostra rivoluzione non andrà a buon fine a meno che non si leghi a delle profonde trasformazioni  in tutta la regione. Non si può costruire un Egitto democratico se si è circondati da un oceano di dittature, da un oceano di basi militari americane, e se si ha accanto un regime di apartheid come quello che c’è oggi in Palestina. Raramente ho assistito ad una manifestazione in Egitto senza vedere bandiere di altri paesi del mondo arabo, della Palestina, della Siria, del Bahrein etc. Se la nostra rivoluzione avrà successo, questa potrà contagiare chiunque.

 

Credi che oggi si stia proponendo un nuovo modello di rivoluzione dopo il fallimento di quelle scoppiate nel XX secolo?

Credo che il modello non sia cambiato. Noi vogliamo esattamente quello che voi volevate a Torino nel 1920, in Germania dal 1918 al 1923, in Spagna dal 1936 al 1939, o in Ungheria nel 1956. L’essenza è la stessa, ovvero il controllo dei mezzi di produzione da parte dei lavoratori. Strategie e tattiche ovviamente cambiano. Per mezzi di produzione non intendo solo le grandi fabbriche. Molte persone poi pensano che il lavoratore sia solo quello in tuta blu. Chiunque lavori per un salario per me è un lavoratore, protagonista del cambiamento.

 

Di norma si tende a credere che i blogger siano promotori di un’idea politica più vicina ai valori della democrazia nord americana piuttosto che a quelli della lotta di classe da te proposti. Sei un’eccezione nella galassia di blogger egiziani e del mondo arabo?

La blogosfera egiziana ed araba in generale è molto estesa. Nel dicembre 2004, quando il mondo dei blogger ha preso forma, avevamo solo 30 blog personali in Egitto. Nel 2008 uno studio del governo ha detto che il numero di blog in Egitto era cresciuto a più di 168.000. L’anno seguente, secondo l’Arabic Network for Human Rights Information, il numero era cresciuto a più di un quarto di milione, solo in Egitto.

Hai quindi tutti i punti di vista, da quelli che seguono il modello americano, a quelli che adottano il modello islamista, oppure un modello socialista, come il mio. Ci sono blogger che non escono mai di casa e che vivono solo nel cyberspazio, ed altri che hanno un piede nella strada e l’altro nello spazio virtuale. Io rappresento una corrente nel mondo dei blogger, quella della sinistra radicale. Esercitiamo un ruolo di leadership nella blogosfera, siamo molto popolari ed il nostro punto di vista è fortemente condiviso. Tuttavia la stampa occidentale è spesso ossessionata dal punto di vista islamista o da quello liberale.

 

L’organizzazione di cui fai parte [al-Ishtirakiyya al-thawriyya, ovvero “Socialismo rivoluzionario”] ha un impianto trotskista. Qual è la sua composizione sociale e come siete radicati nella società egiziana?

Siamo un’organizzazione molto piccola, di poche centinaia di persone. Siamo umili e non voglio esagerare il nostro impatto sulla popolazione egiziana. Non siamo decine di migliaia. Quei milioni di persone che stanno scioperando in Egitto non sono necessariamente influenzati dal nostro pensiero. Ci piacerebbe, ma non sarebbe vero.

Tuttavia siamo coinvolti in alcune delle più importanti battaglie del mondo studentesco e del lavoro, e questo potrebbe dare l’impressione che siamo più grandi di quanto in realtà non siamo. La maggioranza delle persone che compongono la nostra organizzazione è fatta di studenti, laureati, ma la presenza di lavoratori sta crescendo.

Nel momento in cui milioni di lavoratori egiziani stanno scioperando, è impossibile, data la nostra dimensione, intervenire contemporaneamente in tutte le lotte. Siamo concentrati nei grandi centri industriali perché se loro si muovono, possono trascinare tutta la classe lavoratrice. Per esempio, nello stabilimento di Mahalla [el-Kubra], il più grande polo tessile del Medio Oriente ed il terzo polo al mondo nel suo settore, la leadership del movimento di lotta è socialista ed include anche un nostro compagno.

Qualsiasi cosa accada in Mahalla ha sempre un’influenza sullo scontro di classe in Egitto. Se Mahalla entra in sciopero, tutta la classe lavoratrice ne segue l’esempio. Se a Mahalla vi è una sconfitta, allora tutto il movimento di contestazione fa un passo indietro.

 

In Medio Oriente, sembra che alcuni movimenti islamisti siano riusciti a costruire un ampio consenso facendosi carico di quelle lotte che prima rappresentavano una bandiera delle forze di sinistra. Mi riferisco alla difesa delle masse più povere o alla battaglia anticoloniale. E’ lo stesso anche per l’Egitto?

Negli anni Cinquanta e Sessanta e fino circa alla metà degli anni Settanta, la scena politica mediorientale era dominata dalla delle forze di sinistra. Il loro è stato un fallimento, sia nella risoluzione dei problemi sociali, come anche di fronte ad Israele. Nel 1967 [ndr all’indomani della Guerra dei sei giorni] questa sconfitta era evidente a tutti. Anche i moti che si sono susseguiti negli anni Settanta sono tutti falliti. Mi riferisco per esempio a quelli egiziani del gennaio 1977, o ai moti tunisini del gennaio 1978.

Accanto a questa serie di sconfitte era scoppiata la rivoluzione islamica iraniana che riuscì a deporre lo Scià, oltre che a prendere una posizione molto netta contro gli Stati uniti. La matrice islamica ha cominciato ad essere percepita come alternativa all’esistente, ma in realtà, da un punto di vista della proposta socio-economica non è cambiato nulla.. Molti movimenti islamisti venivano inoltre sostenuti dai regimi al potere contro le sinistre.

Non è un caso che in molte realtà dove in passato vi era un forte presenza della sinistra, le correnti islamiste hanno avuto in seguito un altrettanto forte radicamento. Il sud del Libano ad esempio rappresentava la roccaforte del partito comunista libanese. Dopo il loro fallimento, quella regione è divenuta la roccaforte di Hezbollah. Molti intellettuali egiziani che si consideravano marxisti dopo il successo della Rivoluzione iraniana sono passati a sostenere correnti islamiste.

I popoli arabi non sono stupidi. Avevano provato l’opzione di sinistra per 20 anni, era venuto il momento di provare qualcosa di diverso.

Gli islamisti hanno avuto la loro chance durante gli anni Ottanta e Novanta. Alla fine di questi ultimi le insurrezioni da loro promosse (come in Egitto o Algeria) ed i governi islamici che si erano insediati (vedasi il Sudan) hanno fallito. Ancora un volta si era venuto a creare un vuoto che la sinistra poteva riempire.

 

Come?

Io appartengo ad una generazione che è entrata in politica nella seconda metà degli anni Novanta e che ha cominciato a rivitalizzare la sinistra partendo dai campus universitari. Una generazione che è stata in prima linea nelle mobilitazioni in favore della causa palestinese del 2000. Dal mio punto di vista il processo che ha portato agli eventi del 2011 è cominciato proprio da lì. Non è una coincidenza che si parta proprio dalla fine degli anni Novanta, quando cioè le insurrezioni promosse dalle correnti islamiste si stavano esaurendo. Se non fosse stato così, sarebbe stato difficile far riemergere la sinistra nel nostro paese.

 

Cosa pensi del ruolo svolto dai Fratelli Musulmani in Egitto?

Seppur molto attenti in passato alle questioni sociali, gli Ikhwan non proponevano un reale modello alternativo. Per loro occuparsi del sociale rimandava ad una questione di carità religiosa. E’ emblematico il fatto che negli anni Quaranta in Egitto si opposero fortemente agli scioperi promossi nel settore tessile. Dagli anni Settanta hanno deciso di sostenere delle politiche neo-liberiste. Tuttavia dobbiamo ricordare che non hanno mai fornito in passato un programma preciso rispetto alle prospettive sociali ed economiche. Utilizzavano solo slogan molto generali.

Quando hanno cominciato a fornire un programma economico più preciso, l’organizzazione si è fortemente divisa. La laedership del movimento appartiene alla comunità dei businessmen musulmani. Un’elite conservatrice che in passato aveva lasciato l’Egitto per i paesi del Golfo e che tuttavia non costituisce necessariamente il corpo centrale dell’organizzazione. La base su cui poggia il movimento è composta dalla piccola borghesia e dalla classe media dei professionisti. Se i Fratelli Musulmani cominciassero a proporre in maniera chiara dei programmi neo-liberali, perderebbero molti dei loro quadri di base.

 

Quale è stato il loro atteggiamento nei confronti delle mobilitazioni precedenti alla rivoluzione?

Negli anni precedenti, dal 2006-2011, i Fratelli musulmani non avevano preso parte a nessuno sciopero. Per esempio di fronte agli scioperi di Mahalla el-Kubra di quel periodo il movimento  aveva comunicato un sostegno formale, senza tuttavia impegnarsi direttamente.

Allo scoppio della rivolta il 25 gennaio e per i primi tre giorni la dirigenza della Fratellanza non aveva fornito nessun sostegno ufficiale. I giovani della Fratellanza aderirono invece immediatamente alle proteste. Solo dal 28 di gennaio la leadership dichiarò ufficialmente il suo sostegno.

 

E dopo la caduta di Mubarak?

A partire dall’11 febbraio, i Fratelli Musulmani ufficialmente non presero più parte a nessuna manifestazione. L’organizzazione non si è attivata per nessuno sciopero, e nemmeno nelle mobilitazioni all’interno dei campus universitari svoltesi nei mesi febbraio, marzo ed aprile per allontanare dalle università gli accademici e le forze di sicurezza legati al regime.

Sottolineo ancora tuttavia che non ho visto una singola protesta nella quale non ci fossero dei Giovani Fratelli musulmani, nonostante i divieti posti dalla leadership. Oggi vi sono delle divisioni in seno alla Fratellanza. Vi sono moltissime negoziazioni che stanno facendo dietro le quinte. La leadership preferisce scendere a compromessi con i generali, soprattutto in vista delle elezioni che si terranno il prossimo novembre. Pensano esclusivamente al Parlamento e non ad un’azione costante nelle strade.

 

Altro dato interessante è il rinnovato attivismo delle organizzazioni salafite. Come si sono differenziate dalla Fratellanza musulmana?

La questione dei salafiti è ancora più interessante. Tutti gli shaykh salafiti prima della rivoluzione erano soliti denunciare gli scioperi e tutti coloro che dissentivano verso i loro capi. Affermavano che se un dittatore è un musulmano non ci si poteva ribellare. Rimanevano immobili, mentre numerosi dei loro seguaci continuavano a morire per le torture subite nelle prigioni egiziane. Solo quando fu chiaro che Mubarak sarebbe stato deposto, allora questi shaykh cominciarono a cambiare atteggiamento. Nonostante ciò, i giovani salafiti hanno aderito sin dal primo giorno alle proteste. Erano nelle piazze, fianco a fianco con le donne, le persone di sinistra, ed il resto del mondo laico.

 

Tutti i media, arabi e occidentali, mostrano una profonda preoccupazione verso queste organizzazioni?

La forza dei salafiti è stata pompata dai media in modo sensazionalista. Per controllare la base del movimento, soprattutto i giovani che erano nelle strade, gli shaykh hanno provato ad indirizzare la loro rabbia verso temi conservatori, ignorando i generali dell’esercito. Per esempio, nei mesi di febbraio e marzo i salafiti hanno attivato un’enorme protesta partendo dalla leggenda del rapimento di giovani musulmane, a loro dire commesso dai copti. Cercavano di fomentare le persone contro le chiese, dichiarando che i cristiani vi conservavano delle armi e che intendevano separarsi dagli altri egiziani.

 

In riferimento proprio ai passati scontri tra cristiani e musulmani, non vi erano altri attori che magari possono aver incoraggiato queste divisioni?

L’Egitto ha una lunga storia di settarismo, è un’eredità che non possiamo pensare di annullare solo perché vi è stata una rivoluzione. Anche la gente comune, non necessariamente appartenente alle correnti salafite, può magari sostenere questo scontro contro i cristiani. Vi sono state al contempo delle azioni promosse da alcuni gruppi salafiti, al fine di incrementare questo odio. Sicuramente è ipotizzabile anche un coinvolgimento delle forze di sicurezza, come per esempio è successo in Italia negli anni Settanta, con la cosiddetta “strategia della tensione”.

 

Parli di un settarismo profondo. Tu, da militante, quali soluzioni proponi?

Vi sono stati dei segnali di speranza. Un esempio: quando sono state attaccate le chiese del quartiere popolare di Imbaba, nel distretto di Ghiza [Cairo settentrionale], molti  attivisti musulmani hanno creato volontariamente delle catene umane a protezione delle chiese.

La strategia promossa da me e da altri attivisti di sinistra per provare a sconfiggere questo settarismo è quella di incoraggiare le lotte dal basso. Per esempio, due giorni dopo gli attacchi di Imbaba, i medici egiziani hanno indetto il loro primo sciopero nazionale dal 1951. Leader di questo sciopero era la dottoressa Monamina, una donna, cristiana, di sinistra, che ha sconfitto la posizione assunta dai Fratelli musulmani nel sindacato, contrari allo sciopero. Ha guidato così milioni di medici, cristiani e musulmani, tutti assieme, partendo da delle rivendicazioni sociali.

L’Egitto è un paese conservatore. Ad esempio, è un tabù per le donne passare la notte fuori casa. Mentre mi muovevo tra le fabbriche egiziane dal 2007 al 2010 ho visto molti lavoratori salafiti partecipare agli scioperi, nonostante l’opposizione di tutti gli shaykhs. Mi è capitato di vedere donne in niqab nelle fabbriche occupate, dormire sul pavimento, sotto lo stesso tetto con altri uomini. Questo mentre i loro mariti erano fuori dalle fabbriche con i loro bambini per andare a prendere il cibo da portare dentro.

I laici liberali pensano che il settarismo sia solo un problema di educazione. Credono che tutto si possa risolvere semplicemente portando la propria solidarietà nelle chiese, poi nelle moschee, facilitando il dialogo interreligioso.

Noi crediamo che il problema sia più profondo e che, per risolverlo, sia necessario costruire una conflittualità dal basso. Io non sono ossessionato dal fatto che le persone siano laiche o credenti. Credo che la lotta su questioni di carattere socio-economico spingerà implicitamente le persone ad una mentalità secolare, come nel caso che vi ho evocato.

 

Queste scene di emancipazione pensi siano legate ai risultati prodotti dal femminismo egiziano?

No, non credo. Il femminismo egiziano purtroppo è stato storicamente molto debole ed elitario. Non vi è mai stato un reale interesse verso le donne appartenenti alle classi lavoratrici. Sappiamo che l’oppressione delle donne avviene in tutte le classi. Allo stesso tempo la reazione a questa oppressione è legata alla loro condizione sociale. Quelle delle classi più elevate rivendicano delle quote rosa in Parlamento, o la possibilità di viaggiare all’estero. Ma le donne delle classi lavoratrici non hanno nemmeno il passaporto.

Nella maggior parte delle fabbriche di vestiti che ho visitato negli anni passati, e dove lavorano principalmente le donne, nessuna femminista è mai passata. Le femministe sono occupate nelle loro ONG del Cairo, attivandosi verso il Parlamento per questioni che riguardano solo le classi più elevate.

 

Quale è stato il ruolo delle donne negli scioperi?

Le donne hanno svolto un ruolo chiave. Per esempio, lo sciopero di Mahalla el-Kubra del dicembre del 2006, che ha scatenato una grande ondata di mobilitazioni, è partito dall’iniziativa di 3000 donne che hanno indetto uno sciopero nella fabbrica il 7 dicembre. Hanno successivamente cominciato a girare per tutto lo stabilimento industriale, entrando anche nei reparti dei loro colleghi maschi al grido “Dove sono gli uomini? Qui ci sono le donne” o “Non siete abbastanza uomini”. Hanno fatto vergognare a tal punto i loro uomini che anche loro sono entrati in sciopero in massa.

Nelle mobilitazioni alle quali ero presente, l’attivismo delle donne è stato sempre maggiore rispetto a quello degli uomini. Ancora oggi continuano a svolgere un ruolo determinante. Anche nelle nostre manifestazioni in Downtown [quartiere centrale del Cairo, ndr] capita spesso che siano le donne a voler fronteggiare le forze di polizia, mentre noi cerchiamo di calmarle!

 

Parliamo delle elezioni parlamentari che si terranno il prossimo 28 novembre.

Dopo la caduta di Mubarak, i generali dell’esercito avevano promesso di lasciare il potere ad un’autorità civile entro sei mesi. Quindi le elezioni si sarebbero dovute tenere entro settembre. Sono state poi spostate al mese di novembre. L’organizzazione di cui faccio parte, assieme ad altre organizzazioni di sinistra, ha deciso di boicottare questa tornata elettorale. Le ragioni sono numerose.

La prima è che non si possono avere delle elezioni mentre i generali sono a capo del processo di transizione. Sono consapevole che ogni rivoluzione debba attraversare un periodo di transizione che può durare qualche mese o anche di più. Il problema non è il tempo, ma i soggetti che ne sono a capo. In questo caso sono i generali di Mubarak ed in particolare il suo ex Ministro della Difesa. Stanno manipolando questa transizione in modo da avere un governo di civili che non mini i privilegi dell’esercito, degli imprenditori ad esso legati, e che non cambierà la nostra politica estera.

Il nostro esercito riceve annualmente 1.3 miliardi di dollari dagli Stati Uniti ed è il più importante alleato americano nella regione dopo Israele. Vi sono degli attivisti che so essere sinceri e che credono in queste elezioni. Sono convinti che, prima si avranno queste elezioni, prima i militari torneranno nelle loro caserme.

Io ho un’opinione differente. Non mi interessa se l’esercito sia per strada o nelle caserme. Alla fine  è l’istituzione che ha governato il paese dal 1952 ad oggi. Oggi l’esercito controlla dal 25% al 40 % della nostra economia. Produce armi, ma anche utensili, climatizzatori.

Se vi saranno queste elezioni, non sarà importante la composizione del Parlamento. Anche se si eleggesse un Parlamento composto al 100 % da esponenti della sinistra radicale, non si potrebbe fare nulla perché sono i militari che stanno orchestrando questo show.

 

Molti invece si stanno preoccupando di avere un processo elettorale trasparente.

Le stesse persone che hanno truccato le precedenti tornate elettorali, ora saranno a capo delle procedure di controllo. Prendiamo ad esempio il caso di Muhammad Rifa‘at Qumsan, che era stato in passato a capo del “Dipartimento affari elettorali” del Ministero degli Interni. Avrebbe teoricamente dovuto occuparsi della logistica delle elezioni e, attraverso una commissione, avrebbe dovuto visionarle. Ognuno sa che questo generale sta manipolando l’intero processo elettorale. E’ lo stesso individuo che ha truccato le elezioni parlamentari del 2005, le elezioni del Majlis al-Shura [Camera alta del Parlamento] del 2006 e le elezioni del novembre 2010, dove abbiamo avuto una vittoria del PND con una percentuale del 97.5 %. Sarà lui a supervisionare le prossime elezioni del 28 novembre. Per noi non sarà altro che un teatrino. Preferiamo invece continuare la rivoluzione e gli scioperi dei lavoratori, fino a quando questi generali non verranno allontanati. Solo dopo potremmo parlare di elezioni, o della nuova costituzione.

 

Parliamo un attimo nel dettaglio della questione palestinese. Sembra che la posizione ufficiale sia rimasta identica.

A livello ufficiale nulla è cambiato. All’inizio della rivolta i militari avevano promesso l’apertura del Valico di Rafah. In realtà non è mai accaduto.

Gli accordi di Camp David con gli israeliani, promosso dal dittatore Sadat, non è mai stato popolare in Egitto e molti volevano abolirlo. Questo non significa che il giorno dopo tutti sarebbero partiti in guerra contro Israele. Semplicemente non volevano questo trattato e non intendevano riconoscere Israele. Molti affermano che questo accordo, assieme ad altri trattati internazionali, promosso dalle dittature precedenti, dovrebbe essere sottoposto a referendum popolare.

Ma il Consiglio militare, nel suo secondo comunicato dopo aver preso il potere, hanno affermato di voler rispettare tutti gli accordi internazionali, ovvero che nulla cambierà nelle relazioni israelo-egiziani, che le navi da guerra americane continueranno ad attraversare il Canale di Suez, fattori questi che hanno da sempre provocato rabbia tra gli Egiziani. Quando poi, qualche settimana fa, sei poliziotti egiziani sono stati uccisi nel Sinai da Israele, l’esercito non ha fatto nulla. La stessa cosa è accaduta durante i bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza. Quando è capitato che alcune bombe israeliane avevano colpito il territorio egiziano, ancora una volta l’esercito no fece nulla.

 

Ma quale è il sentimento della popolazione al riguardo?

La causa palestinese ha sempre rappresentato uno dei più importanti fattori di politicizzazione e di radicalizzazione tra i giovani. Io per esempio ho cominciato a fare militanza grazie alla causa palestinese. Come adolescente, ho acquisito coscienza politica e mi sono schierato con il radicalismo di sinistra grazie a quello che i palestinesi stavano facendo. La rivoluzione in corso oggi può essere ricondotta al 2000 ovvero allo scoppio della Seconda Intifada palestinese. Gridavamo lo slogan “La strada per Gerusalemme passa per il Cairo”, perché per liberare Gerusalemme dovevamo anzitutto deporre Mubarak, il più grande alleato statunitense ed israeliano. Ecco perché le proteste pro-palestinesi si sono rapidamente trasformate in proteste contro il regime.

La prima volta che sono stato arrestato e torturato, nell’ottobre del 2000, era durante una manifestazione a sostegno dell’Intifada palestinese. Assieme ad altri compagni, stavo gridando uno slogan anti-Mubarak. Oggi non trovi una protesta in Egitto in cui non ci sia una bandiera palestinese. La gente fa sempre dei parallelismi tra la situazione palestinese e quella egiziana. Vi sono sempre delle proteste di fronte all’ambasciata israeliana al Cairo con l’esercito che ha tentato di reprimere queste proteste. Recentemente un muro era stato costruito in difesa dell’ambasciata. Abbiamo mobilitato la gente contro questa decisione. Lo slogan era “Porta il tuo martello e vieni a tirar giù il muro”. Così, il 9 settembre, lo abbiamo buttato giù.

 

In questo momento così delicato per l’Egitto, vuoi lanciare un appello verso il mondo occidentale?

Gli egiziani stanno combattendo questa rivoluzione. Siamo consapevoli che non possiamo combattere da soli. Abbiamo bisogno di aiuto e di solidarietà dall’estero. Non dalla Nato, né dai governi occidentali, né da Obama, ma dai popoli d’Occidente, dai suoi studenti, dai suoi lavoratori, dagli attivisti e dai sindacati. Per noi è di fondamentale importanza. Abbiamo bisogno perlomeno di comunicati che arrivino dai sindacati occidentali a sostegno degli scioperanti egiziani. Le ragioni sono molteplici.

Per gli scioperanti che vivono nelle regioni più remote dell’Egitto, sapere che vi sono persone all’estero che li sostengono può sollevare loro il morale. E’ anche un messaggio rivolto ai generali dell’esercito: a dire che vi sono persone all’estero che stanno osservando la situazione; questo ha sempre rappresentato un deterrente alla repressione degli scioperi. Gli attivisti nel mondo del lavoro possono fare pressione sui loro governi per boicottare le relazioni economiche con quei paesi che violano i diritti dei lavoratori.

Un’ultima considerazione, la nostra rivoluzione non è una rivoluzione chiusa in se stessa. Non possiamo dichiararci vittoriosi se la rivoluzione non si diffonde. Crediamo fermamente che la primavera araba troverà la sua strada anche in Europa e nell’Occidente industrializzato.

Può sembrare una cosa da pazzi, eccessivamente utopistica, ma l’Europa ha una profonda tradizione di militanza in questo senso che le elite al potere cercano di nascondere, reprimere o di descrivere come qualcos’altro. L’esempio dell’autunno caldo italiano è lampante. Il neo liberismo è un nemico comune, le politiche che hanno impoverito la popolazione egiziana sono le stesse che stanno impoverendo le nostre sorelle e i nostri fratelli d’Occidente. Siamo sicuri che arriverà anche il vostro momento.

 

5 ottobre 2011

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Conflitti Globali

Sospeso il processo per l’omicidio di Giulio Regeni

«Gli agenti egiziani vanno informati» La terza Corte d’Assise annulla il rinvio a giudizio. Ora servirà una nuova rogatoria per chiedere l’elezione di domicilio dei quattro membri della National security. La decisione dopo una lunghissima giornata di dibattimento La terza Corte d’Assise di Roma rientra in aula alle 20.45, dopo quasi sei ore di camera […]

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Conflitti Globali

Business first! Regeni e Zaki non contano: altra fornitura di elicotteri di Leonardo all’ Egitto

Patrick Zaki? Giulio Regeni? Non contano. Le dichiarazioni solidarietà, di indignazione per la detenzione del primo e l’omicidio del secondo non scalfiscono di un millimetro il rapporto di collaborazione tra l’Italia e l’Egitto e il business delle armi continua imperterrito (come pr altro quello del petrolio).  L’ultimo affare riguarda una partita di elicotteri operativi al 100 per cento. […]

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Conflitti Globali

Egitto: Il ministero egiziano della repressione e dei depistaggi si addestra in Italia

Tra il 2018 e il 2019 la polizia italiana ha formato agenti egiziani. Una collaborazione con il ministero più controverso d’Egitto: quello che gestisce i servizi segreti, che ha depistato sull’omicidio di Regeni e di cui fanno parte i suoi aguzzini. E quello che ogni anno indaga, incarcera e fa sparire dissidenti veri e presunti […]

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Conflitti Globali

A 5 anni dalla scomparsa di Giulio Regeni

Cinque anni fa moriva Giulio Regeni, dottorando presso l’università di Cambridge dapprima rapito e poi ucciso in Egitto mentre conduceva delle ricerche sul ruolo dei sindacati autonomi nelle proteste che stavano attraversando il paese. (L’immagine tratta dalla pagina satirica Compagni Annoiati riporta la foto che Giulio aveva mandato dall’Egitto, due giorni prima di essere rapito.) […]

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Conflitti Globali

Avere paura degli aquiloni

Da piccola passavo una parte dell’estate in Marocco, il paese d’origine dei miei genitori. Quelle settimane le ricordo con il sorriso, tanto amore e un po’ di malinconia. Passavo le mie giornale nel darb a socializzare con i coetanei della zona. Mi chiedevano come fosse l’Italia, come mai avessi un accento così strano, ridevamo, scherzavamo […]

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Approfondimenti

E’ di nuovo primavera? – Gli audio del dibattito

Ieri al Centro Sociale Askatasuna si è tenuto il dibattito “E’ di nuovo primavera? – Dibattito sui nuovi conflitti sociali che attraversano il mondo arabo” con le relazioni di Gabriele Proglio, ricercatore di storia contemporanea presso l’Universidad de Coimbra e Karim Metref, giornalista ed educatore. Molti sono stati gli spunti su questo nuovo ciclo di […]