La rivoluzione sotto assedio. Una corrispondenza dal cantone di Efrîn
Una corrispondenza da Efrîn, il cantone circondato ormai da anni da forze turche e islamiste, di Jacopo un compagno torinese che sta partecipando alla rivoluzione nella confederazione della Siria del nord.
Essere ad Efrîn in questo momento di forte minaccia esterna non è scontato né semplice, ma d’altra parte è la scelta chiara di assecondare un istinto, quello di sentire come un dovere il partecipare alla lotta dei popoli che dal Kurdistan stanno dimostrando di poter costruire un’alternativa democratica e socialista alla barbarie che attanaglia la regione. Porsi in prima persona al centro degli eventi che possono diventare decisivi per il futuro dell’esperienza confederale.
Efrîn è infatti uno degli scenari strategicamente cruciali per l’assetto politico siriano, sia per la convinzione che i suoi abitanti hanno verso il progetto rivoluzionario, sia per la sua posizione geografica che ne fa un obiettivo centrale sia dal punto di vista del governo turco, deciso a colpire al cuore la confederazione, sia da quello della rivoluzione.
Colpire il cantone sarebbe fondamentale per porre un freno all’escalation rivoluzionaria, che al contrario vede l’unificazione del cantone di Efrîn al resto della confederazione come un obiettivo primario che renderebbe l’intero nord della Siria un territorio libero e democratico. È in questo quadro che Jacopo ha preso la decisione di trovarsi li, nel luogo che viene sempre più paragonato a Kobane come importanza simbolica, dove ci si prepara per la più dura resistenza decisi a far si che nessuna forza nemica metta piede nel territorio liberato già dal 2012.
Hai la possibilità di andare ad Efrîn, puoi anche dire di no. Il cantone di Efrîn è grande un terzo della provincia di Torino e da quando è iniziata la rivoluzione sette anni fa è circondato da forze nemiche. Su due lati, ovest e nord, c’è la Turchia, a sud e a est si sono alternate le bande di Jabhat al-Nusra, Daesh, Ahrar al Sham e Jaysh al-Islam. Ora l’esercito turco preme anche da questi due lati con l’occupazione di Idlib a sud e Al-bab a est, dove tra l’altro supporta le bande islamiste. Da tempo Erdogan minaccia l’invasione del cantone e nell’ultimo mese si sono susseguiti quasi quotidianamente bombardamenti e movimenti militari lungo i confini. Efrîn è strategica dal punto di vista militare, politico ed economico per la sua posizione e perché è ricca di agricoltura e piccole industrie. Allo stesso tempo da sempre ha mostrato forte attaccamento ideologico alla lotta di liberazione del popolo kurdo, nonché è un’area in cui la rivoluzione e le sue strutture sono particolarmente radicate. Erdogan vuole invadere Efrîn perché è la chiave per distruggere la rivoluzione nella Siria del Nord, mi dicono, e così spera di risolvere la questione kurda anche in Turchia.
Non avevo mai pensato che sarei potuto andare ad Efrîn. Quelle poche volte che ci ho pensato ne ero completamente terrorizzato: essere sotto assedio e sotto costante minaccia in un lembo di terra minuscolo e di cui non conosco la lingua. Ma avrei potuto dire di no? Come avrei potuto essere un militante politico e ritirarmi di fronte alla paura quando la rivoluzione è in corso? Se mi fossi tirato indietro come sarei potuto tornare il Italia (che tra l’altro mi manca parecchio) e lottare per una società libera e giusta, nelle università, nei quartieri, nel movimento No Tav, sapendo che non sarei stato in grado di arrivare fino in fondo se necessario? Che senso avrebbe dire “Vogliamo la rivoluzione!” se vale solo finché il rischio è accettabile? Sfidare l’assedio turco turco e delle bande islamiste e contribuire alla rivoluzione anche in quel cantone è necessario, non voglio tirarmi indietro. Vado.
Efrîn è diversa dal resto della Siria del Nord. È un territorio montuoso, che costituisce un’ottima difesa per un popolo proverbialmente guerrigliero, ed è piena di verde e alberi, in particolare i rinomati ulivi. In seguito alla guerra, circa 30.000 profughi si sono spostati dalla vicina Aleppo nel cantone (che arriva a 1 milione di abitanti) facendo raddoppiare la popolazione della città principale da cui prende il nome. Questo, mi dicono, ha fatto crescere l’attitudine metropolitana e da ceto medio di Efrîn. Passeggiando per le strade della città, Heval Zagros mi spiega che, nonostante l’attaccamento ideologico della popolazione, a Efrîn la rivoluzione si trova di fronte a nuove sfide. Qua il regime di Assad aveva un atteggiamento leggermente diverso che nel resto del Rojava: molte persone lavoravano per l’amministrazione dello stato siriano e in qualche modo mostrano ancora un certo attaccamento ad esso. Non al regime e ai suoi metodi brutali, ma ad una certa sicurezza e ad una certa idea di stato. “Alcuni vengono a chiederci delle cose come se fossimo solo un altro stato, un altro gruppo di potere. Non hanno capito che stiamo facendo la rivoluzione per una società autorganizzata che possa fare a meno dello stato”. Per esempio, sebbene il movimento degli studenti democratici sia bene organizzato, nell’università di Efrîn non sono ancora riusciti ad introdurre quei cambiamenti radicali negli insegnamenti e nella gestione che sono già attivi nell’Università del Rojava con sede a Qamişlo. Nel frattempo osservo gruppi di giovani apparentemente simili a studenti di una città europea intenti a fissare lo schermo dei loro smartphone. E’ evidente che qua la rivoluzione si trova ad affrontare uno scenario diverso dai villaggi nel cantone di Kobane o nei quartieri poveri di Qamişlo. Heval Zagros continua dicendomi che essere ceto medio apre le porte alla speranza di trovare una sistemazione all’interno del sistema capitalistico, sistemarsi studiando o emigrando in Europa. Il richiamo del sistema agisce sul ceto medio per integrarlo, per illuderlo che una rivoluzione non sia necessaria. “Se sei di ceto medio pensi sempre di poter stare con un piede nel sistema, pensi a tenerti la possibilità di poter fare un passo indietro”. Come affronteranno questo scenario ancora non mi è chiaro. Poco dopo nel centro giovani di Efrîn mi faccio tradurre una conversazione ascoltata da lontano: “Non puoi dire una cosa del genere. Hai visto Kobane? Se l’esercito Turco attacca, Efrîn sarà distrutta e perderemo migliaia di compagni e fratelli. Sì, combatteremo e vinceremo, ma non puoi dire che lo vogliamo”.
Di colpo sono di nuovo nella Siria in guerra.
La vita quotidiana scorre normalmente anche se è palpabile la tensione e l’attesa di capire le intenzioni della Turchia e si guarda con speranza alle sollevazioni in Başur (Kurdistan iracheno) e Rojhilat (Kurdistan iraniano). La speranza che la rivoluzione cominci anche nelle altre parti del Kurdistan è diffusa in tutte le case.
Pochi giorni dopo arrivo nel paesino alla frontiera turca circondato da montagne verdi in cui svolgerò la mia attività. Qua incontro Heval Cudî che mi spiega che in questa rivoluzione l’organizzazione dei giovani ha un ruolo fondamentale. I giovani sono coloro che hanno di fronte ancora tante possibilità diverse di decidere come vivere, sono quelli che contribuiscono agli aspetti di autodifesa e quelli che studiando possono contribuire a sviluppare la società libera. Saranno le generazioni che dovranno proseguire il percorso rivoluzionario e per questo devono avere la giusta partecipazione in tutte le strutture della rivoluzione.
Dopo una breve passeggiata mi fa vedere a valle il confine con la Turchia, il muro eretto da Erdogan e una postazione militare dell’esercito turco. Mentre me li indicava ero seriamente preoccupato che da quella base qualche cecchino giocasse con le nostre teste. D’altronde l’esercito turco è noto per sparare sui civili in Rojava. Il mio compagno invece sembrava del tutto indifferente al problema.
Il locale centro giovani è per molti versi simile a come sarebbe in qualche paese della provincia italiana, struttura rurale, disordine e vecchio mobilio. Heval Cudî mi indica le foto al muro, sono di Şeid: Ş. Sîpan, Ş. Diyar, sono del paese. Poi passa a Ş. Çekdar, Ş. Botan e Ş. Hozan, da quello che posso vedere nelle foto sono tutti sui 20 anni.
《Hevalen min.》 (amici miei) Mi dice.
La possibile ambiguità dovuta all’uso rivoluzionario di indicare tutti con il termine “heval” viene inequivocabilmente rotta dal gesto dei due indici che ripetutamente si congiungono longitudinalmente. I suoi occhi diventano lucidi, ma non conosco abbastanza la lingua per poter dire qualcosa che non sia:《Şeid na mîrin.》(I martiri non muoiono.)
《Rast e.》(è vero) Mi risponde sottovoce. E poi:《Em ê bicin.》 (Andiamo.)
La rivoluzione deve proseguire, anche per i martiri. Quindi usciamo per incominciare il nostro lavoro in questo villaggio.
Continua…
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