Le banche europee licenzieranno decine di migliaia di addetti
HSBC, uno dei più grandi gruppi bancari al mondo con sede nel Regno Unito, ha annunciato che taglierà trentacinquemila dipendenti nei prossimi tre anni a fronte di una caduta dei profitti annuali del 33%.
Unicredit, prima banca in Italia per patrimonio gestito e per fatturato, qualche mese fa aveva comunicato che avrebbe chiuso 500 filiali e lasciato a casa 8000 lavoratori nel periodo 2020-2023. UBI banca chiuderà 175 filiali e annuncia oltre 2000 esuberi. Nello stesso periodo Deutsche Bank prevede di avere 18mila esuberi. Quasi tutte le banche del vecchio continente e anche alcuni importanti istituti USA come Morgan Stanley stanno provvedendo a durissime ristrutturazioni delle filiali e del personale. Numeri che toccheranno probabilmente a breve le centomila unità di esuberi complessivi.
Questi dati incrinano la narrazione di un sistema bancario solido ormai fuori dalle paludi della crisi. Alla base di questo spietato taglio dei costi vi è la scarsa redditività degli istituti europei, la mancanza di trasparenza e le elevate perdite di credito. Uno dei grandi dilemmi per il capitalismo finanziario europeo e per le sue istituzioni è che questi istituti spesso sono “too big to fail” e allo stesso tempo non abbastanza grandi per sostenere l’onere di una pulizia approfondita dei crediti inesigibili che rimangono a navigare nei libri contabili. A questo punto è probabile che molte banche tenteranno aggregazioni e fusioni per riuscire ad avere un maggiore margine di manovra, accentrando ulteriormente il potere finanziario.
Allo stesso tempo i tassi di interesse negativi imposti dalla BCE mantengono bassa la redditività delle banche che dal reddito da interessi percepiscono circa il 60% dei loro margini. Il provvedimento della BCE avrebbe come obbiettivo quello di uscire dalla stagflazione stimolando i consumi e gli investimenti (e riducendo i risparmi). Quindi se da un lato questa manovra permette di accedere a prestiti a tasso zero o addirittura positivi in alcuni paesi europei, dall’altro potrebbe provocare una nuova crisi di liquidità nelle banche che non ricevendo guadagni dagli interessi si sono gettate su mercati illiquidi come quello immobiliare e dei debiti dei paesi emergenti. Alcune banche tedesche hanno iniziato a minacciare di rivalersi sui conti correnti dei risparmiatori trasponendo i tassi di interesse negativi. In qualche modo anche i licenziamenti è probabile che vengano utilizzati come strumento di pressione nei confronti della BCE per far cambiare la politica dei tassi. Per procedere a questo taglio dei costi e mantenere un’efficacia gli istituti prevedono un ciclo di automazione a tappe serrate.
Inoltre i tassi negativi hanno indebolito l’euro nei confronti del dollaro a causa dei molti prestiti erogati dalle banche europee negli Stati Uniti. Sebbene la Fed abbia tassi bassi, quelli della BCE sono a 0 e dunque il mercato statunitense è più attrattivo. Il problema sostanzialmente è che i flussi di liquidità emanati dalla BCE si riversano nella finanza USA senza neanche sfiorare l’economia reale europea.
Non si prospettano all’orizzonte soluzioni a questa situazione nel quadro neoliberista, infatti qualsiasi via venga battuta ha come esito il vicolo ceco della speculazione.
Ad ogni modo l’economia reale dell’area UE stenta a ripartire, la finanziarizzazione però galoppa (come abbiamo già detto qui, anche grazie ai tassi di interesse negativi) e lo scoppio di una nuova bolla immobiliare non è così improbabile. A pagare questa finanziarizzazione e la competizione intracapitalistica per mantenere a galla i profitti delle banche saranno naturalmente ancora una volta i lavoratori, sia che ciò avvenga attraverso i licenziamenti e l’automazione, sia per via dell’indebitamento di massa.
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