Libia: il prezzo della libertà
Da Bengasi e dalle regioni dell’est partono ogni giorno carovane cariche di giovani e giovanissimi rivoluzionari armati per fare avanzare il movimento insorgente con l’obiettivo di prendere Tripoli. Nella capitale sono stati repressi nel fine settimana molti cortei e presidi anti-regime, mentre altrove, come anche nella vicinissima città di Misurata, impazzava una battaglia decisamente impari, tra milizie ed esercito lealista, e movimento e ribelli armati. Gheddafi ha utilizzato anche elicotteri per assecondare le operazioni dei corpi scelti dell’esercito e in alcuni casi è riuscito a riprendere parte del terreno che durante la scorsa settimana sembra aver perso senza resistere tenacemente come annunciava durante le sue apparizioni in tv.
Sembra che in Libia si sia arrivati allo stallo: Gheddafi ha dalla sua corpi scelti e soldi per poter comprare mercenari e professionisti della guerra, il movimento che gode della solidarietà e della simpatia della stragrande maggioranza del popolo, non ha gli stessi mezzi, e non dispone dei capitali del rais, ma forse ha un’arma decisiva: la convinzione politica degli insorgenti, che non hanno altro da guadagnare se non la libertà e la realizzazione di quegli ideali di giustizia sociale e solidarietà scritti nero su bianco nei comunicati delle prime giornate della collera.
Ci chiediamo infatti, mentre ancora una volta il regime tenta di chiudere e serrare internet (per cui le informazione che abbiamo a disposizione escono con il contagocce) cosa pensano i migliaia di ribelli e giovani rivoltosi che resistono o conquistano città, delle non lineari e coerenti prese di posizione del Consiglio di Bengasi, che in alcuni casi sembra voler aprire esplicitamente alle potenze occidentali per un “soccorso” armato (dal sapore di occupazione militare USA-NATO della Libia, sotto egida Onu) anti-Gheddafi e in altri si mostra possibilista alla mediazione con ciò che rimane dell’assetto istituzionale rimasto fedele al rais.
Fino a tre giorni fa leggevamo migliaia di frasi lanciate su twitter che ripetevano, come fosse un appello urlato e condiviso: ”ci liberiamo da soli! non abbiamo bisogno delle vostre truppe! questa è la nostra rivoluzione!”. A questo punto non possiamo che chiederci se non si stia iniziando ad aprire una contraddizione tra aspirazioni e volontà politica del movimento insorgente, e le istituzioni di Bengasi, alla cui costruzione stanno partecipando ex-ministri, vecchi amici e sostenitori di lunga data del rais di Tripoli, convertitisi solo nelle ultime settimane alla causa della libertà. In queste ore la battaglia va avanti a Ras Lanouf, dove chi ha impugnato il fucile per la prima volta si trova a scontrarsi con mercenari e professionisti della guerra provenienti da mezzo mondo, convinzione politica e coraggio rivoluzionario contro quattrini e alta tecnologia. Si parla già di altri morti nella città.
E mentre i comunicati della Nato, dei ministri degli esteri europei e della Casa Bianca ripetono minacce che aumentano il fiato sul collo di Gheddafi, la prima nave, con la nuova bandiera libica carica di petrolio salpa da un porto libico per dirigersi verso l’Italia. La transizione del petrolio è già ricominciata, oggi però, dopo il blocco quasi totale di internet in Libia, a transitare nella rete mancano le parole dei rivoltosi che fino a tre giorni fa dicevano a Casa Bianca ed Europa “giu le mani dalla nostra rivoluzione!”.
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