Luci e ombre attorno alla crisi e alle rivolte in Libia
di Txente Rekondo – del Centro Basco di Analisi Internazionale (GAIN)
Dal quotidiano basco Gara del 13 marzo
Nessuno dubita che buona parte delle richieste della società libica siano legittime, e nemmeno che le rivolte abbiano l’appoggio materiale o tacito delle potenze occidentali. Ciò che è chiaro è che la Libia non è la Tunisia di Ben Ali né l’Egitto di Mubarak, non è comparabile con lo Yemen o con le monarchie cleptograte del Golfo. In tutti questi casi troviamo sistemi allineati con l’Occidente. Nel caso di Gheddafi, al di là degli accordi sul petrolio e l’immigrazione, la situazione è molto diversa.
La Libia è da settimane al centro del uragano mediatico e delle manovre geostrategiche dei distinti attori internazionali. Le proteste iniziate in Tunisia ed Egitto si sono diffuse e si configurano ora come una fotografia di una situazione complessa in cui sono in gioco diversi interessi.
Per molto tempo, la figura del leader libico è stata presentata come quella di un qaid (capo mussulmano) che aveva saputo coniugare abilmente la retorica rivoluzionaria con una lettura sui generis dell’islamismo, mantenendo una posizione di affronto verso le pretese colonialiste delle potenze occidentali. Ma nonostante questa visione, e al di là delle vittorie in casa propria (sul piano dell’educazione e dell’abitare), la deriva degli ultimi anni ha progressivamente bloccato questo tipo di sviluppi e, per di più, in quanto a politica estera, c’è stata un’importante svolta che ha permesso alla Libia di sparire dalla “lista nera” degli USA e dei suoi alleati europei.
Così, le percentuali di disoccupazione sono aumentate assieme alla frustrazione di importanti settori sociali; a questo si sommano le difficoltà crescenti per quanto riguarda l’abitare, le espropriazioni e i progetti che hanno beneficiato ai gruppi che si muovono attorno alla florida industria del turismo e che ogni giorno si trovano più legati alle trame di corruzione presenti nella regione.
Quando si cerca di capire cosa succede in Libia è importante tenere presente l’importanza di vari attori e fattori presenti nella realtà del paese.
La cosiddetta opposizione. Offrire un’immagine compatta e omogenea dell’opposizione al governo libico è possibile solo se si portano avanti determinati interessi. L’opposizione ingloba una serie di posizioni, movimenti e ideologie, con poco peso dentro la Libia nella maggior parte dei casi e ognuno con le proprie priorità. Ciò che unisce i gruppi esiliati, islamisti, ex-militari, baazisti, socialisti, liberali è la richiesta di finire col regime di Gheddafi, soprattutto con la sua figura, cosa che può ance coincidere con i desideri delle potenze occidentali di “cambiare qualcosa perché nulla cambi”, così come abbiamo visto che si sta provando a fare nei paesi vicini.
Nelle ultime settimane al fronte di opposizione si sono uniti militari e diplomatici che hanno abbandonato le proprie cariche per unirsi alla ribellione. In alcuni casi lo hanno fatto convinti della necessità di cambiamento, ma in molti hanno deciso di farlo per puro tatticismo. Persone che fino al giorno prima dello scoppio delle proteste erano parte integrante del potere libico hanno voluto approfittare delle richieste popolari, e soprattutto del possibile appoggio dell’Occidente, per mettersi in una posizione privilegiata in un ipotetico scenario post-Gheddafi.
Il sistema tribale. Il peso tribale è determinante per capire la struttura e le forme del potere in alcuni stati. Yemen, l’Asia Centrale, l’Afghanistan e la Libia ne sono esempi. Storicamente le tribù libiche(più di 140 tribù e clan) hanno avuto importanti fette di potere, soprattutto prima dell’indipendenza del 1951, ma anche durante il regime monarchico successivo. Il trionfo della rivoluzione degli anni ’60 ha portato con se un nuovo tipo di politica portato avanti da Gheddafi che cercherà di contrastare il potere tribale per rafforzare il nuovo stato libico.
Il complesso sistema delle tribù, subtribu, clan e famiglie a volte riesce a far si che la fedeltà e le relazioni dentro le stesse primeggino sull’adesione allo Stato centrale. Questo fatto fa si che la presenza di alcuni soggetti in ruoli di potere(civile o militare) sia vista come un appoggio a una piuttosto che l’altra tribù, generando le conseguenti rivalità e gelosie.
Lo stesso Gheddafi è stato in grado, o por le meno ha provato, a mantenere un certo equilibrio fra queste strutture, ma questo non ha impedito che la reciproca sfiducia perdurasse. L’attuale fedeltà delle tribù libiche verso gli uni o verso gli altri, evidentemente è in relazione diretta con le aspettative sul futuro scenario libico.
Al giorno d’oggi, alcune sono già venute in luce. Nell’est, le tribù Abu Llail e Misurata, con un’importante presenza in quella regione e soprattutto a Bengasi, si oppongono a Gheddafi, il quale a sua volta può contare con l’appoggio della tribù Al-Awaqir, che ha sempre avuto un peso importante nella realtà libica.
Nell’Ovest, la più grande tribù del paese, Warfalla, ha deciso di abbandonare Gheddafi, pur avendolo appoggiato negli ultimi decenni. La tribù del dirigente libico Qadhafah, rimane fedele. Per concludere, un importante numero di tribù non ha ancora preso posizione, aspettando l’evoluzione dei fatti, probabilmente per salire “sul cavallo vincitore”. Magariha e Zawiya sono due esempi.
Le rivalità interne al regime. Molte volte magnificate dall’Occidente, e nonostante questo, è vero che negli ultimi anni si sono avuti diversi contrasti di potere nei settori prossimi al leader libico. Le lotte per la successione fra i suoi vari figli, che alcuni hanno voluto leggere come lotta fra fazioni riformista e conservatrice, a seconda si tratti di uno o l’altro figlio; le differenze fra Saif al-Islam e alcuni ministri della vecchia guardia, e anche le discrepanze fra i figli e il leader libico, sono esempi che sono comparsi sulla stampa negli ultimi anni.
Alcune fonti affermano che uno dei maggiori rischi per Gheddafi viene dall’interno della sua propria struttura di potere. I desideri di accumulare protagonismo e potere, come abbiamo visto con le recenti defezioni di militari e diplomatici, potrebbero diffondersi e mettere in serie difficoltà il leader libico.
Gli attori stranieri. Gli USA e i suoi alleati occidentali hanno chiaramente lavorato alla destabilizzazione della Libia, per poter materializzare un “cambiamento di regime” che sia vantaggioso ai propri interessi.
Da molti anni si è cercato di spingere per il cambiamento in Libia, e in questo senso conviene ricordare l’inclusione del paese nella “lista nera” insieme a Irak, Sudan, Somalia, Siria, Afghanistan, Libano e Iran. E abbiamo visto come nella maggior parte di questi paesi l’alleanza occidentale è intervenuta in forme diverse, ma nella maggior parte dei casi con risultati estremamente negativi per le popolazioni locali, molte delle quali trascinate in uno scenario di caos e violenza.
Adesso quegli stessi protagonisti che pretendono riprendere i vecchi discorsi interventisti (esclusione aerea, aiuti umanitari), bisognerebbe interpellarli a proposito della loro partecipazione diretta nella vendita di armi, lo stesso che starebbe usando Gheddafi per contrastare la ribellione, e che nella maggior parte dei casi proviene da industrie occidentali, che a loro volta hanno importanti legami con i rispettivi governi. O sulle armi che si stanno mettendo in mano ai ribelli, e che futuro si prefigura con una Libia cosparsa di armi senza controllo.
Gli interessi in campo energetico o di emigrazione, sono determinanti al momento di capire la posizione dell’Occidente e i desideri di una “nuova Libia”, che assieme agli stati vicini, si sottometta ai desideri di Washington o Bruxelles. Il governo di Gheddafi non è stato di impedimento per gli accordi su gas e petrolio che l’Italia, l’Irlanda, l’Austria, la Grecia o la Francia hanno firmato con Tripoli, ma un regime “collaborazionista” sarebbe una soluzione ideale.
Conviene ricordare anche la calorosa ospitalità che lo stesso Gheddafi ha ricevuto da parte dei vari capi di Stato europei negli ultimi anni.
I mezzi di comunicazione. In certe occasioni utilizzati e in altre nascondendo la propria mancanza di informazioni, o servendo interessatamente a uno o agli altri, buona parte dei mezzi di comunicazione stanno portando avanti diligentemente il proprio ruolo. Da giornalisti che da centinaia di kilometri di distanza commentano la realtà basandosi su “voci” o informazioni “non confermate”, fino a notizie che parlano di “bombardamenti dell’aviazione di Gheddafi” sulle case dei civili(senza mostrare immagini), e che qualche linea più sotto parlano dell’esistenza di cecchini fedeli a Gheddafi appostati sui tetti di quelle stesse case che sarebbero state bombardate!
La coperta di silenzio che quelle stesse testate hanno spiegato su Tunisia ed Egitto, la loro condiscendenza verso le monarchie del Golfo sono fattori da tenere presente nel momento di considerare la funzione dei media rispetto alla Libia.
In questo senso, un altro protagonista che sta ricevendo critiche è Al-Jazeera, il canale di informazione che fino a oggi ha fornito gran parte delle notizie sul mondo arabo e islamico, e che ha permesso a quei popoli di avere una visione diversa da quella che fino a quel momento ricevevano dalle emittenti occidentali. Alcuni analisti rimarcano il ruolo che questo mezzo di comunicazione, legato all’emiro del Qatar, starebbe portando avanti. Il trattamento freddo delle rivolte del Golfo o il silenzio su ciò che accade in Libia sono oggetto di critiche che mettono in discussione il suo ruolo storico.
Lo scenario futuro. È difficile predirlo al giorno d’oggi, ma sia quale sia, le cose non torneranno come prima. Lo scenario di guerra civile sembra obbedire più agli interessi delle potenze occidentali, per giustificare un loro intervento, che alla realtà libica. Geograficamente e socialmente è poco probabile che ci troveremo in una situazione simile a quella che si vive in altri conflitti del continente africano, e anche l’incidenza dell’islamismo yihadista è un’incognita.
Nel passato, tanto i Fratelli Mussulmani come i movimenti yihadisti erano stati quasi cancellati dalle forze di Gheddafi, e al giorno d’oggi non sembrano essere in prima linea. Nonostante questo, non bisognerebbe sottovalutare la capacità di queste formazioni di diventare importanti attori nella crisi libica in futuro, in funzione allo sviluppo degli eventi. Per di più, se si arrivasse all’intervento militare straniero, il caos che si svilupperebbe sarebbe terreno fertile per Al-Qaeda, come abbiamo visto succedere in Somalia poco tempo fa.
Come hanno segnalato analisti locali, “una guerra civile causata dalle differenze etniche, regionali o tribali, non è all’orizzonte” e l’unico rischio può venire da “un’alleanza fra gli interessi di figure importanti che hanno abbandonato il regime e i governi stranieri”.
Se Gheddafi riuscirà a controllare la ribellione può essere che mescoli repressione a concessioni riformiste, per camuffare la situazione di fronte alle pressioni occidentali. E bisognerà vedere in quel caso quale sarà l’atteggiamento di Gheddafi verso quei governi che hanno scommesso e appoggiato il rovesciamento del suo regime.
E se la ribellione trionfa, non sembra probabile un cambiamento strutturale del potere, ma solo un cambiamento al vertice, e, unico dato certo, con l’aiuto straniero.
Nessuno dubita che le richieste dalla società libica siano legittime, ma allo stesso tempo nessuno può essere così ingenuo da pensare che le recenti mobilitazioni non abbiano contato con l’aiuto materiale e tacito delle potenze occidentali, che con le armi e altri mezzi cercano un cambiamento di regime favorevole a consolidare i propri interessi in Libia e in tutta la regione.
tratto da radiocittaperta.it
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