La guerra civile in Yemen nasconde la lotta per l’egemonia in Medio Oriente
Poche testate, tra cui non quelle italiane, hanno dato il giusto risalto all’importante colpo di scena verificatosi una settimana fa nella guerra civile yemenita.
Il 4 dicembre, l’ex presidente Ali Abdullah Saleh, a capo della coalizione ribelle che combatte contro l’attuale primo ministro legittimo, Abdrabbo Mansur Hadi, è stato catturato e ucciso mentre tentava di abbandonare la capitale Sana’a.
Questo episodio rappresenta un ulteriore ribaltamento delle sorti della sanguinosa guerra intestina che, da diversi anni, logora lo stato arabo, e ha già provocato almeno 10000 morti. La morte dell’ex presidente, infatti, sembra inevitabilmente destinata a produrre, come diretta conseguenza, il brusco arresto della strategia da quest’ultimo perseguita nell’ultima fase del conflitto.
La strategia di Saleh consisteva in una forma di apertura ai ribelli nell’ottica di un graduale processo di pacificazione, che prevedeva, sulla base di un temporaneo cessate il fuoco, un riavvicinamento tra le formazioni ribelli a maggioranza sciita vicine al governo di Taheran e le truppe legittimiste sostenute della coalizione internazionale a guida saudita. Una strategia contraria alle volontà di Teheran ma molto gradita all’Arabia Saudita, a cui gli Usa e la Gran Bretagna forniscono un importante supporto logistico, che sembra perciò destinata a fallire.
Saleh, d’altronde, stava forse perseguendo un obiettivo eccessivamente ambizioso, contando troppo sul proprio ruolo personale e non rendendosi fino in fondo contro delle implicazioni connesse all’importanza che la battaglia per il potere in Yemen ha nel complesso dello scacchiere mediorientale, attraversato in queste ore anche dalla recrudescenza della questione israelo-palestinese in seguito alla dichiarazione di Trump su Gerusalemme.
C’è da dire che non era il primo caso in cui l’ex presidente tentava un’operazione così delicata. Nel 2012 infatti, una volta perduta la carica presidenziale a seguito di un’operazione a cui Riyadh aveva fornito l’appoggio politico, egli era riuscito a legittimarsi come capo delle formazioni ribelli a fianco degli Houthi, minoranza storicamente sostenuta dall’Iran e da lui fino a poco tempo prima combattuta, con un clamoroso volta faccia che lo aveva nuovamente portato a ricoprire un ruolo chiave per il destino dello stato yemenita e che seguiva la repressione sanguinosa del tentativo insurrezionale che in Yemen stava cercando di affermarsi sull’onda delle esperienze tunisina e egiziana.
Nelle ultime settimane, dato il protrarsi della fase di stallo sul campo e percependo l’urgenza saudita di trovare una modalità per uscire dignitosamente dal logorante conflitto, Saleh aveva ritenuto di poter cambiare di nuovo sponda, emarginando una parte della coalizione da lui stesso guidata – cioè appunto la minoranza Houthi- per conseguire un riavvicinamento con la controparte, nell’ottica probabilmente di conservare un ruolo importante nel processo di pacificazione. Questa volta però, nonostante l’immediato appoggio saudita, le cose non sono andate secondo i piani tanto che, i suoi stessi alleati di un tempo, una volta accusatolo di tradimento, hanno deciso di sbarazzarsene.
Difficile dire con certezza quale ruolo abbiano avuto le potenze regionali sullo sfondo di questa vicenda. Quel che è sicuro, tuttavia, è che i tempi non sono ancora maturi per la risoluzione di un conflitto che ha un enorme peso nel complesso dei rapporti di forza in Medioriente, data l’importantissima posizione strategica dello Yemen e il rimescolamento degli equilibri nell’area, con la Russia in ascesa sia in seguito al ruolo giocato in Siria sia in merito al tentativo di capitalizzare in termini di consenso e soft power la reazione delle popolazioni arabe alla forzatura di Trump.
L’assassinio di Saleh, in sintesi, rappresenta un ulteriore momento di grave tensione nella battaglia di potere tra Riyadh e Taheran per l’egemonia regionale, che riflette a sua volta lo scontro in corso tra la NATO e la Russia di Putin nell’area, con la Cina osservatore fintamente disinteressato e pronto ad appoggiare ogni movimento che possa ulteriore mettere in difficoltà la tenuta imperiale statunitense. E’ una fase di stallo, in cui tutti i conflitti aperti, dallo Yemen alla Palestina, dal Kurdistan alla Siria, non hanno di fronte a sè una risoluzione semplice e in tempi brevi.
La guerra civile che ha provocato migliaia di morti in Yemen difficilmente potrà allora terminare nel breve periodo senza che, tra le due potenze, venga trovato un solido punto di incontro. La qualcosa, all’oggi, non sembra per nulla all’ordine del giorno.
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