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Scozia: vince il No ma l’Europa rimane in bilico

Tutto ciò, nonostante una campagna elettorale disastrosa – basti pensare che appena sei mesi fa gli unionisti erano dati con un vantaggio di 20 punti percentuali – fomentata da allarmismi e da un vero e proprio terrorismo psicologico promosso da Westminster e dalla trasversale coalizione labour-tories. A fare presa, soprattutto le preoccupazioni per un eventuale tracollo economico in caso di una vittoria del Si, innescata in particolare modo dalla voce – poi rivelatasi falsa – che la Bank of Scotland si sarebbe allontanata dal paese per riparare in Inghilterra.

La corona può dunque tirare un sospiro di sollievo, che comunque non sarà mai grande come quello dei mercati internazionali, i cui indici sono schizzati alle stelle prima ancora che giungessero i risultati definitivi. La sterlina dunque ha buon gioco nel rafforzarsi, permettendosi così una spavalderia nei confronti dell’euro che le mancava ormai da anni. Un entusiasmo, quello inglese, che mal si concilia con il ritratto di un regno che, a ben vedere, non è mai stato così lontano dall’essere “unito”, senza contare che la Gran Bretagna, ormai, di grande ha solo il divario economico tra chi subisce l’impoverimento totale delle proprie vite e chi si arricchisce tramite lo sfruttamento di questi ultimi.

Quello scozzese, però, non è solo un voto che provoca squilibri interni al mosaico dell’identità britannica  (in crisi dopo avere abbandonato le antiche pulsioni imperiali e post-coloniali, ma anche – parzialmente –  quelle atlantiste in combutta con l’alleato d’oltreoceano), ma getta soprattutto scompiglio nella compagine dell’Unione Europea in un momento estremamente delicato per la sua affermazione politica ma anche di quella più strettamente legata al suo espansionismo territoriale (si veda il caso ucraino).

Perchè se c’è una cosa che il referendum d’oltremanica mostra in maniera evidente – al di là degli allarmismi dei media nostrani – è come sia ormai entrato definitivamente in crisi il modello dello stato nazionale post-guerra fredda che avrebbe dovuto traghettare l’Europa verso la sua affermazione definitiva come entità unitaria. I titoli dei quotidiani dei giorni scorsi sono esemplificativi a tal proposito: nel descrivere un’Europa “terrorizzata” dall’esito del referendum veniva da chiedersi a quale Europa si facesse riferimento – se quella della troika, della responsabilità e dell’austerity come male minore – oppure quella reale delle lotte sociali, dei movimenti per l’autodeterminazione e delle pratiche di resistenza contro la crisi.

È ovvio che un risultato del genere non può che tranquillizzare Bruxelles – il presidente del consiglio europeo Shulz non ha provato a nasconderlo nemmeno per un momento -, facendoci anche dimenticare i voli pindarici di alcuni nostri governanti, improvvisatisi fini strateghi della geopolitica per l’occasione (Enrico Letta che si lancia nel parallelismo tra prima guerra mondiale e esito del referendum scozzese ci ha strappato più di un sorriso).

Di sicuro, l’esperimento della Scozia lascerà più di qualche strascico nel composito quadro politico del vecchio continente, a partire da quello che si prefigura come una stretta dei governi centrali sulle pulsioni autonomiste. Se infatti Cameron si è affrettato a confermare i provvedimenti che amplieranno il margine di autonomia della Scozia, allo stesso tempo si è detto favorevole ad allargare gli stessi provvedimenti anche a Galles, Irlanda del Nord e Inghilterra, quest’ultima sicuramente avvantaggiata dal fattore economico e quindi, potenzialmente, in grado di sfruttare maggiormente un provvedimento di questo tipo in modo da riconfermare il suo ruolo di “primus inter pares” all’interno del regno.

Inoltre, la campagna referendaria ha avuto il merito non secondario di attivare una larghissima fetta di popolazione su temi politici e sociali che, grazie anche al forte attivismo della sinistra radicale, guardano da vicino ai movimenti globali di lotta alla crisi e all’austerità. Una mobilitazione che, per quanto risicata nelle pratiche, non è dissimile al processo che porterà la Catalogna ad esprimersi per la propria indipendenza il prossimo novembre, scatenando le ire di Madrid che si è subito affrettata a ricordare come una consultazione del genere sia incostituzionale nello stato spagnolo.

Più che creare un precedente, infatti, questo referendum si inserisce a pieno titolo nella tradizione che vede nella lotta per l’autodeterminazione dei popoli uno strumento in più per portare avanti pratiche di riappropriazione e autonomia, rigettando ancora una volta le strumentalizzazioni di chi trova l’occasione per rigurgitare becero nazionalismo, xenofobia e razzismo all’interno di movimenti che non li hanno mai accettati.

Al di là dei facili entusiasmi, però, si può leggere il referendum scozzese come un ulteriore tassello in grado di mettere in crisi il fragile equilibrio dell’establishment europea, in bilico tra la necessità di mantenere i vincoli economici della BCE e smarcarsi in politicamente dagli stessi per non mandare in frantumi il già basso indice di gradimento di cui gode.

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