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Shaddadi, Rojava: vita nella città liberata

Hassake vede ancora la presenza del regime, con l’appoggio di una milizia cristiana minoritaria, in alcuni quartieri del centro. Check point con soldati e bandiere siriane delimitano l’accesso di quelle aree, in contrasto con le enormi bandiere del Kurdistan (verdi, gialle e rosse) che sventolano nel resto della città, a sottolineare quale dovrà esserne il futuro. Nelle periferie stormi di bambini si inseguono tra asfalto e macerie, edifici bombardati e case in costruzione. A sud della città inizia il deserto, indefinita distesa di arido terriccio e sterpaglie. La strada per Deir El Zor, roccaforte dell’Is nell’oriente siriano, è continuamente interrotta da cumuli di terra che obbligano le automobili a procedere a zig-zag, per rallentarne l’avanzata in prossimità degli innumerevoli check-point delle Sdf. Considerevoli greggi di pecore intasano ulteriormente la strada, circondati da gruppetti di pastori con i volti bendati e lunghi bastoni in mano, in media un adulto ogni tre o quattro bambini. Con il procedere dei chilometri, l’idioma curdo tende a sparire, se non in bocca alle Ypg: la popolazione predominante, a sud di Hassake, è araba.

Dal nostro corrispondete un audio di approfondimento sulla giornata di festa nazionale in Rojava per il compleanno di Abdullah Öcalan durante la quale migliaia di giovani curdi hanno organizzato una marcia verso il confine turco per richiederne la liberazione. Vengono inoltre approfonditi i retroscena politici del complotto internazionale che ha portato all’arresto del presidente del PKK.

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I check-point non si interrompono fino all’ingresso militarizzato di Shaddadi, ultima conquista delle Ypg ai danni dell’Is. Negozi chiusi, strade vuote e silenziose, serrande arrugginite e abbassate, edifici crollati sotto i bombardamenti statunitensi. “Abbiamo dato noi le coordinate Gps agli americani, durante i combattimenti – ride un combattente Ypg indicando un compagno – ben presto è arrivato l’aereo, e ha colpito con precisione”. L’aiuto che ricevono dagli Stati Uniti non è il massimo, dice, ma è più preciso di un intervento russo: “Quelli, se gli dai le coordinate, radono al suolo tutto il quartiere”. I compagni tengono a sottolineare la qualità dell’operazione di tre settimane fa: “Abbiamo circondato la città di notte, provenendo da due lati. Improvvisamente i miliziani di Daesh si sono accorti che eravamo entrati e hanno cominciato a sparare, ma ben presto hanno dovuto morire o arrendersi” racconta Brusk, originario di Amuda, nel nord del Rojava.

“Ho fatto tutte le operazioni nei cantoni di Cizire e Kobane; quasi tutti i miei amici sono morti, io sono state ferito tre volte: al ventre, al collo, alla gamba. In confronto ad altre operazioni, quella di Shaddadi è stata semplice”. Alcuni dei combattenti internazionali che hanno prenso parte all’assalto dicono che i miliziani, quando hanno capito di essere in trappola, hanno resistito con disperazione, per poi nascondersi tra la popolazione: “A volte entravamo nelle case e li trovavamo appena sbarbati, la barba e il rasoio ancora sul lavandino; difficile valutare come agire”. “Daesh sta crollando – dice Brusk – ormai il loro morale è a terra”. Judi, un altro compagno, aggiunge ridendo: “Quando li abbiamo catturati, gridavano ‘non siamo di Daesh!’; e allora, abbiamo loro chiesto, a cosa vi servono i kalashnikov?”.

Mervan, sedici anni, ci accompagna per la città su un mezzo Toyota con il cambio e il volante ricoperti di finta pelliccia e musica house sparata dall’autoradio a tutto volume. Per le strade i pochi civili rimasti evitano i contatti con la truppa e rifiutano di essere fotografati. Donne velate in nero, uomini seduti al sole, ragazzini timidi e schivi. Mervan e il suo compagno Ager si fermano a comprare bibite e snacks in un negozietto. Il gestore vende e incassa, ma non mostra cordialità. Questa gente è curda o araba, chiediamo a Mervan? “Tutti arabi”, risponde. Sulla questione le versioni sono diverse. C’è chi dice che esista una minoranza curda a Shaddadi e chi, anche tra le Ypg, lo nega. Non tutti, del resto, sono bene informati: per molti, questa è soltanto l’ennesima città attraversata. Certo è che i civili rimasti non superano il centinaio, sebbene alcuni compagni pretendano di negare anche questo. Altri, invece, raccontano: “Quando abbiamo preso la città, i miliziani che non avevamo ucciso o catturato sono riusciti a fuggire grazie a un ammirevole sistema di tunnel da loro costruito, che conduceva fuori città; poi anche parte della popolazione è partita”.

Un combattente europeo ci racconta i saccheggi avvenuti dopo la liberazione: “La gente rimasta ha cominciato a entrare nelle case dei vicini, abbandonate, e a prendersi tutto: cibo, vestiti, mobili, frigoriferi, materassi. Siamo intervenuti e abbiamo fatto restituire alcune cose, ma la situazione era fuori controllo, non abbiamo potuto fare molto”. Difficile leggere la composizione politica di questi luoghi: in realtà come queste la politicità di ogni narrazione dei fatti, anche la più banale, è portata all’estremo dai testimoni; nessuno darà mai una versione minimamente equilibrata. Le Ypg dicono che è stata la popolazione a chiedere l’intervento delle Sdf, per telefono. “La gente era stremata: non aveva più niente da mangiare, lo stato islamico era arrivato a requisire le automobili in cambio di zucchero”. Non è escluso che alcuni abitanti vedano le Ypg come il male minore anche per ragioni economiche. “La presenza di Daesh non fa bene all’economia delle città: con tutte le proibizioni che introducono, molti beni – dalle sigarette in poi – non vengono più venduti”.

Il silenzio di Shaddadi, in ogni caso, parla della guerra contemporanea come fattore di confinamento e deportazione, riorganizzazione del “materiale umano” secondo una metafisica da scaffale del supermercato, dove ogni luogo è deputato a un genere di prodotto – o identità. La geografia politica è “purificata” dalla guerra e persiste come fattore di controllo globale. Molti abitanti di Shaddadi se ne sono andati con l’arrivo dell’Is, e quelli che erano rimasti perché lo appoggiavano se ne sono andati adesso. Anche chi era rimasto per altri motivi ha paura a restare: come potranno dimostrare che le loro opinioni politiche sono “sane” agli occhi del nuovo “conquistatore”? Come sempre in queste situazioni, le differenze si fanno sottili: nessun esercito, in guerra, è disposto a discutere questioni di lana caprina, e la gente ha comprensibilmente paura. Un caso diverso è quello di coloro che hanno attivamente aiutato le Sdf a scovare i miliziani denunciandoli, conducendo le Ypg nelle loro case (in quanti hanno agito per sincera volontà di vendetta, in quanti per convenienza?). Il risultato è una miriade di villaggi e città disabitate, in questa come in tutte le altre regioni della Siria. Chi manca all’appello potrebbe essere facilmente rintracciato a Erbil, a Beirut – sulle coste turche dell’Egeo, a Idomeni.

Nel cortile del quartier generale delle Ypg, che prima ospitava i comandanti dello stato islamico, ragazze e ragazzi di Ypg e Ypj chiacchierano, giocano, poi vengono radunati ad ascoltare, seduti, il discorso di promozione ideologica di un loro compagno. “I popoli arabi e quello turco – spiega – non sono né peggiori, né diversi dai curdi, ma oppressi e ingannati da stati capitalisti come Daesh, la Turchia, il regime siriano”. Applausi scroscianti. Judi spiega che qui “ci sono combattenti di ogni nazionalità: curdi della Siria, dell’Iraq e della Turchia, ma anche turchi, arabi, iraniani”. Cristiani? “No, sono una fazione meno significativa dal punto di vista militare”. Sul piazzale stazionano quattro o cinque Ypg statunitensi, chiediamo loro da dove vengono: “Kensas, Florida…”. Siete soldati, avete combattuto in Iraq? “Sono stato nell’esercito – dice uno – ma è la mia prima esperienza all’estero”. Un altro aggiunge: “Ci sono forze speciali Usa attive nell’area, conducono operazioni anche sul terreno da un paio di mesi. Ieri hanno conquistato un villaggio”.

Nelle stanze, dove le Ypg-Ypj dormono sugli stessi materassi che fino a un mese fa ospitavano i coetanei del califfato, i muri sono ricoperti da scritte e pensieri dei miliziani ora morti o fuggiti; la maggior parte in lingue incomprensibili, forse idiomi dell’Asia centrale. “Molti dei miliziani catturati vengono dalla Siria, moltissimi dalla Turchia, anche dalla Cecenia e dall’Azerbaigian, e dagli Stati Uniti”, dice Judi. Un Ypg australiano afferma che solo dal suo paese i miliziani dell’Is possono aggirarsi in 150-200. Continua Judi: “Ci sono anche curdi: l’emiro di Shaddadi, morto durante il combattimento, era di Suleimaniya”. Nella base, come nella città, non c’è internet né copertura telefonica, scarseggia l’acqua e si mangia a base di riso e uova. Le Ypg amano sinceramente questa vita. Non sono pagate: “Non siamo come i peshmerga del Kurdistan iracheno – dice Judi – noi combattiamo per il popolo, per l’ideologia”. Quale ideologia? “Il socialismo: quello di Marx, di Lenin, di Stalin, di Ocalan”. Anche Stalin? “Certo. Tutte le figure del passato socialista sono controverse, perché hanno commesso l’errore di conservare lo stato. Lo stato – afferma – è capitalista nella sua essenza”.

Dall’inviato di Radio Onda d’Urto e Infoaut a Shaddadi, Rojava

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