Siria: perché è fondamentale sostenere Afrin?
Afrin”. Dov’è? Cos’è? Ancora un nome che sorge, sconosciuto, dalle cronache del mondo, dalle macerie fumanti della guerra civile siriana. Un tempo era stata Deraa, in altre fasi di questa storia, e in parte in una storia diversa; poi Kobane, nei mesi dell’avanzata dell’Isis che sembrava inarrestabile; quindi Aleppo, Raqqa. Questa storia è lunga, ampia. Riconduce a Tunisi e al Cairo, fino allo Yemen e al Bahrain, fino a Teheran.
La resistenza che Afrin, in queste ore, conduce contro il secondo esercito della Nato, sola come Davide contro Golia, tra i cadaveri dei bambini che restano sotto le macerie dei bombardamenti di un esercito che vanta tecnologia israeliana, elicotteri italiani e carri armati tedeschi, non è che l’esito di sette anni di rimescolamenti e caos seguiti al sommovimento popolare delle primavere arabe. Non è possibile comprendere il senso degli avvenimenti di Afrin se non si tiene fermo questo sguardo lungo, che poi ci impone di risalire soltanto fino all’altro ieri. Cosa ne è stato delle “primavere”, quali processi hanno messo in atto? Dove le insurrezioni, le elezioni, i colpi di stato, le guerre civili hanno condotto le popolazioni del Nordafrica e del Medio oriente?
La Siria settentrionale divenne presto epicentro ambiguo della rivoluzione siriana, con tutte le sue oscurità e contraddizioni. Nel luglio 2012, mentre bande di islamisti delle campagne attorno a Manbij e Jarablus attaccavano Aleppo, Afrin, cittadina dell’estremo nord-ovest, cacciava le forze governative e dichiarava la propria comune, in coordinamento con Kobane. L’analogo organo di autogoverno dichiarato a Shech Maxsud, quartiere curdo di Aleppo, sarebbe stato evacuato con migliaia di profughi proprio ad Afrin, mentre l’antica città siriana veniva travolta dagli scontri tra regime, islamisti e Ypg. Ancora oggi la comune di Aleppo si riunisce ad Afrin, uno dei luoghi più belli della Siria, difeso, con efficacia, dalle Ypg, sebbene circondato da anni dall’ostile Turchia a nord e a ovest e dalle forze islamiste ad essa alleate a sud e a est. Tuttora il cantone di Afrin, confederato con Manbij, Kobane, Qamishlo e Hasakah fino a Raqqa, è luogo di accoglienza permanente per migliaia di profughi provenienti da Aleppo, Idlib ed altri territori. Proprio una famiglia intera di profughi arabi è tra le prime vittime dei bombardamenti a tappeto dell’aviazione turca in queste ore.
Dicevamo: Afrin, Aleppo, Kobane, Raqqa. Siamo abituati a considerarle storie separate, ma è un fazzoletto di terra, e le loro storie politiche, anche durante la guerra, sono più legate di quanto si pensi. Quando guidavo in quelle zone, nel 2016, era straniante dirigersi verso l’Eufrate da Tel Abyad e veder scritto: “Aleppo: 30 Km” o “Raqqa: 50 Km”; “Confine Turchia: 5 Km”. Tutto era vicinissimo, eppure distante. La rivoluzione confederale, il regime, lo Stato islamico. Eravamo tutti lì, tra strade lunghe come le statali tra Napoli e Salerno, o Milano e Cremona; eppure si sapeva che sarebbero stati necessari anni, e migliaia di morti, per aprirle, ed ancora molte di esse, in quell’area, sono chiuse a causa dell’invasione turca di quell’estate, che ha indebitamente sottratto alla popolazione siriana le città di Jarablus, Al-Rai e Al-Bab, consegnandole a milizie di tagliagole islamisti legati al braccio siriano di Al-Qaeda, che gli ineffabili giornalisti italiani chiamano “moderati” e che ora, sotto il vessilo “usa e getta” di quello che una stampa patetica chiama ancora “Free Syrian Army”, vorrebbero portare ad Afrin, città che sperimenta da sei anni l’autogoverno e la rivoluzione delle donne, il medioevo oscurantista del presidente turco – o qualcosa di peggio.
Oggi Afrin resiste quale esito di un lungo processo, che affonda le sue radici certo nella storia della guerra civile siriana e della lotta per la più ampia liberazione del Kurdistan, ma anche nella vicenda complessa di primavere inizialmente arabe, poi curde, ed oggi anche persiane. Fu difficile, non lo si ricorderà mai abbastanza, comprendere che cosa fossero quelle “primavere”. In molti, ricordiamolo ancora, diedero per scontato che si trattava semplicemente del desiderio di “libertà” tra i giovani: meno burocrazia, meno polizia, magari meno tradizione. Appena tre anni dopo, nel 2014, quando in Egitto una dittatura feroce, in parte benedetta dalle sinistre, reprimeva un’ondata islamista impressionante, e parte della Siria e dell’Iraq erano in mano a un autoproclamato e agghiacciante Stato islamico, tutti erano pronti a giurare che nella pancia dei territori musulmani, soprattutto quando è vuota e quando protesta, c’è sempre e soltanto l’islam, e che a una primavera “democratica” in qualche modo “fasulla” e agita internamente da logiche reazionarie, era seguito un inverno salafita.
Non si comprende l’attuale sfida tra le colline di Afrin se non si cerca di sciogliere e comprendere quel nodo, ancora irrisolto: liberazione o sharia? Cosa vogliono quelle società? Cosa vuole la Siria, la Turchia? Le società di oggi sono non solo socialmente stratificate, ma socialmente spaccate, e non secondo direttrici che seguono pedissequamente i confini di classe. Ayman al-Zawahiri, leader globale di Al-Qaeda, fu prudente nel 2011. Le modalità e i contenuti delle manifestazioni mal si conciliavano con il futuro per quei popoli che Al-Qaeda ha in mente. Quelle manifestazioni sembravano, anzi, un pericolo per l’egemonia sociale islamista tanto quanto per le istituzioni al potere; non nel senso che fossero anti-religiose, ma perché qualsiasi iniziativa “autonoma” di parti consistenti della popolazione costituisce per i movimenti salafiti l’inizio della via della dannazione. Gli islamisti, benché si siano talvolta ispirati dal punto di vista organizzativo ai movimenti marxisti degli anni Sessanta (si pensi all’egiziano Sayyed al-Qutb, importante proprio per Zawahiri) sono per definizione qualcosa di diverso da un’avanguardia, poiché il diritto che intendono restaurare non può essere prodotto, neanche in via mediata o indiretta, di una “volontà” o “interesse” popolare.
La diffidenza di Al-Qaeda per le primavere fu condivisa, soprattutto in Egitto, dagli stessi Fratelli musulmani, che pure ammettono la partecipazione politica alle istituzioni secolari al fine di restaurare uno stato islamico: i loro dirigenti rimasero a guardare le manifestazioni di gennaio e febbraio. Tanto loro quanto i salafiti furono però abili ad attendere e a far subentrare la loro agenda quando la repressione produsse prevedibili precipitazioni violente della situazione, in diversi contesti. Questa politica di attesa e di intervento violento, da parte delle organizzazioni islamiste, fu possibile soprattutto perché ceti politici e affaristici ideologicamente analoghi ad essi sono al potere in Qatar, nei paesi del Golfo, in Turchia. Erdogan, in particolare, ebbe l’abilità di presentarsi come una sorta di rappresentante morale del presunto nocciolo identitario, e perciò surrettiziamente assunto come “islamico” delle primavere dei paesi arabi, ipotecando un profitto politico dovuto al consenso di masse che non avevano necessariamente aderito alle manifestazioni, e tanto meno alle assemblee, ma si sarebbero recate ovunque alle urne nel contesto stravolto dai nuovi scenari. Là dove le urne non sono mai state aperte, come in Siria, ha invece agito con spregiudicatezza, armando migliaia di miliziani interessati a costituire, sotto diverse sigle e bandiere, uno stato islamico. Questa combinazione di appoggi a partiti elettorali o a milizie, ha costituito, in tandem con l’analoga azione di Arabia e Qatar, la trasformazione dell’apertura storica del 2011 in una mera collezione di “opposizioni” islamizzate e statalizzate.
E allora? Non è forse normale che gli stati propongano i propri cambiamenti, i propri contenitori culturali e politici, i propri progetti di recupero e di dominio? Senz’altro. Quello che ci dovrebbe interessare e perché non esista una politica alternativa da parte di forze rivoluzionarie altrettanto abili e organizzate. In nessun luogo, se non nelle regioni curde, chi voleva un cambiamento reale ha avuto l’opportunità di poter contare su un’organizzazione politic che sostenesse, interpretasse e difendesse la popolazione e le sue aspirazioni. Le sinistre arabe hanno mostrato una volta in più qual è lo stato in cui versano, finendo per appoggiare i regimi, esprimere posizioni frazionistiche e inconcludenti o riconciliarsi con le istituzioni esistenti. In questo, hanno mostrato quali e quanti siano le affinità, oggi, tra sinistre arabe ed europee. È stato il vuoto pneumatico di una prospettiva organizzata di liberazione – che non può venire dal nulla, ma deve originarsi da percorsi sedimentati e capaci di parlare alle, ed essere parlati dalle, popolazioni – che ha lasciato le masse egiziane, tunisine, yemenite e di gran parte della Siria nelle mani della propaganda di stato o degli stati avversari del proprio stato, di cui le organizzazioni islamiste sono state i lacchè. L’esperienza decennale e la forza politica e militare del Pkk in Turchia in Iraq, del Pyd in Siria, e dell’analogo partito Pjak, attivo in queste settimane in Iran, ha permesso e permette un’alternativa concreta e differente. Un’alternativa che benché inizialmente circoscritta alla regione curda, è stata in grado – lo si è visto in Siria, ma anche in Turchia e in Iran – di uscire ampiamente dal Kurdistan in termini ancor più politici che militari, e collaborare con realtà non curde operando, cosa ancor più importante, nell’orizzonte della produzione di nuove soggettività politiche arabe, femminili e maschili, in Siria.
Per questo se la resistenza di Afrin contro il presidente Erdogan non può essere in questo momento che militare, il suo significato è politico. A trent’anni dal crollo del Muro di Berlino e a un secolo dalla Rivoluzione d’Ottobre la volontà di agire nella consapevolezza che senza un’organizzazione rivoluzionaria si finisce ostaggio del capitale e dello stato anche quando li si vuole rovesciare, la possiamo trovare sulle colline di Afrin, non altrove. Forse per questo i pochi carri armati e i pochi blindati delle Ypg possono apparire ad alcuni l’ultima sedimentazione, l’ultimo grido di guerra di un anelito storicamente finito – con i suoi richiami libertari, la sua propaganda inflessibile, le sue vertigini maoiste; eppure, se è vero che non esiste considerazione neutra della storia, e che nostro compito è vedere le tendenze che si danno materialmente per poterle rafforzare, Afrin è per noi oggi l’inizio.
La percezione di questo genere di pericolosità politica di chi ricarica i Kalashnikov e le Dushka tra i suoi villaggi e sulle sue colline si alza in queste ore o decresce, non a caso, con l’aumentare delle distanze. Il governo turco sente quella prossimità come minaccia palpabile non perché le Ypg abbiano intenzione di attaccare la Turchia – idea ridicola – ma perché il contagio, in Turchia, è in atto da diversi anni, in una lotta durissima che, nell’indifferenza quasi totale del resto del mondo, sta sconvolgendo completamente quella società. Per la Russia, l’Europa e gli Stati Uniti, invece, che giustamente non prendono in considerazione tale contagio, consapevoli della caratura degli oppositori in casa propria, i partigiani di Afrin non sono che pedine utili all’occorrenza, da usare e sacrificare secondo le contingenze. Per Asad, infine, sono “traditori”, ossia così arroganti da pensare di poter evitare di sottomettersi al do ut des degli intrighi mediorientali non divenendo opposizione statalizzata a loro volta.
A sette anni dall’inizio delle rivoluzioni e della guerra questo rifiuto dimostra però che uno sbocco luminoso ai rivolgimenti sociali è possibile. Dimostra che l’inverno salafita o, in Europa, quello veteronazionalista e fascista, sono certo una realtà, ma non una necessità. Le donne e gli uomini di Afrin lo hanno detto chiaro: piuttosto che cedere le armi al regime o agli islamisti, resisteranno soli, con spirito di sacrificio; e preferendo questa strada per il sogno di una rivoluzione che si rifiutano di concepire altrimenti che come mondiale, cadono nel paradosso di dimostrare che qualcosa del genere c’è, semplicemente con la propria resistenza. Ci sveglieranno dal sonno torbido che ci aveva convinti, talora, che le vittorie derivino da un fato più o meno materialistico, e non dal credere in esse e nel riporvi la dedizione necessaria? Al momento, della possibilità per noi di interrompere questo sonno, non ci sono altre prove se non lei, Afrin. Non dobbiamo sostenerla perché sennò “cade”. Un’esperienza come questa non può cadere. Afrin vince anche se i compagni muoiono tutti, per una strana verità che dovrebbe esserci familiare. Siamo noi che, se non lo comprendiamo, siamo condannati ad ammettere che stiamo sopravvivendo in ginocchio.
Davide Grasso
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