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Ucraina: tra guerra mondiale e conflitto di classe

Il criterio fascismo/antifascismo non aiuta, insomma, a comprendere a fondo i motivi e la portata del conflitto ucraino, anzi li offusca e serve, tuttalpiù, ad accalappiare simpatie “tattiche” dall’una o dall’altra parte della barricata.

Quali i veri motivi, allora? Vediamoli in estrema sintesi.

Gli Usa hanno contribuito al successo della Maidan di Kiev disseminando la piazza di militanti delle Ong a libro paga e muovendo all’unisono la corazzata dei media mondiali. La piazza, tuttavia, era reale e piena di soggetti mossi dai più svariati bisogni, uniti dalla voglia di farla finita con lo strapotere degli oligarchi. Pura indignazione inter-classista senza programma che le brigate manovrate hanno agevolmente dirottato in senso pro-occidentale, cavalcando soprattutto l’aspirazione diffusa tra i giovani a varcare la soglia di una società che seduce per le sue promesse di maggiori opportunità di successo individuale per chi lo “meriti” davvero. Promesse destinate per la massa a rimanere un pio desiderio, ma che hanno contribuito a sconvolgere l’equilibrio dell’Ucraina, offrendo il potere a bande di oligarchi pronte a capitalizzare i profitti derivanti dalla svendita delle risorse del paese, cioè l’apparato minerario e industriale, nonché la fertile agricoltura, tutte concentrate nella parte orientale. A questo programma di svendita hanno reagito le regioni del sud-est, con un tentativo di resistenza sociale e politica che ha preso la direzione del separatismo “filorusso”, dinamica favorita dai legami etnici e dalla lingua comune, ma anche dalla profonda convinzione di ricevere in cambio una conservazione degli attuali assetti produttivi, di condizione salariale e normativa, nonché di protezione sociale.

La produzione di una manodopera poco costosa e ricattabile accomuna Usa e UE (in primis la Germania, non perché sia più famelica degli altri europei, ma solo perché possiede capitali ben più cospicui degli altri per inondare di investimenti produttivi competitivi le lande conquistate verso Est). Dove Usa e Germania cozzano è nel tirare la corda in funzione anti-Russia: Obama vorrebbe scacciare la Russia dal consesso dei grandi, ridurne l’influenza in Medio Oriente, isolarla dal resto del mondo segandone anche i buoni rapporti commerciali con l’Europa. La Germania i buoni rapporti vorrebbe conservarli con una Russia, però, un po’ meno assertiva di quella che Putin sta costruendo, ma senza correre il rischio di precipitare in un vero e proprio conflitto.

Recidere il legame Russia-Europa è tra i motivi centrali dell’azione degli Usa, quello che indigna i cuori dei “veri” europeisti (quelli anti-Usa, diffusi molto a destra e sempre meno a sinistra) che invocano il ritorno dell’Europa “in sé stessa”, ovvero a un’alleanza forte con la Russia in funzione anti-Usa. Ma non è l’unico e nemmeno il più importante. Ciò che agita maggiormente i sonni di Washington e  Wall Street, infatti, è il rischio che si consolidino le minacce allo strapotere Usa. Le minacce non arrivano certo dall’Europa, ma da una tendenza di molti paesi a sottrarsi ai meccanismi di prelievo a vantaggio degli Usa, o, per lo meno, a volerne ridurre la portata. I meccanismi principali del prelievo sono: imposizione del dollaro come valuta di scambio e di riserva mondiale, prestiti internazionali agli stati, dominio dei mercati e dei servizi finanziari, predominio sui mercati dell’energia, supremazia nei settori dell’alta tecnologia, in particolare dell’informatica, con le ricadute sulla produttività industriale e le comunicazioni. Ciascuno di questi aspetti è, ormai, messo duramente in discussione. Gli attori del cambiamento sono diversi paesi che hanno raggiunto un certo grado di sviluppo industriale e che per proseguire a svilupparsi devono cercare di trattenere almeno una parte di quella massa di profitti che tradizionalmente prende la rotta di Wall Street (e delle sedi finanziarie europee, sia pure in quota inferiore).

Capofila di questa tendenza è, senz’altro, la Cina, che è anche il paese che avverte di più l’urgenza di interrompere il flusso di profitti che attraversano il Pacifico, per far crescere la massa dei capitali disponibili a far fronte ad un ancora più grande processo di industrializzazione, necessario anche a prevenire l’esplosione di una massa di contadini, che se pure ridotta, ammonta ancora a circa 700 milioni di persone, cui non è più possibile consentire un’agricoltura di quasi sussistenza. Ma esigenze analoghe si avvertono in Brasile, India, Sudafrica, Argentina, Russia, ecc.

La novità che spaventa è che questi paesi, oltre a costituire organismi politici autonomi (Brics, Cooperazione di Shangai, Mercosur, ecc.) stanno implementando una rete di commerci e di affari che si muove in modo tendenzialmente autonomo dai grandi centri finanziari occidentali, e, dunque, si sottrae al loro prelievo. Inoltre, ancor più pericolosamente, vogliono costruire una banca internazionale autonoma dal Fmi, utilizzare negli scambi monete diverse dal dollaro, attirare altri paesi, ai quali offrono condizioni di finanziamento e di scambio commerciale molto più convenienti di quelli proposti dagli Usa (ciò che la Cina fa già da sola in particolare in Africa, da cui, non per caso, gli Usa cercano di scacciarla producendo situazioni di instabilità ovunque Pechino abbia rilevanti investimenti o acquisti idrocarburi: Sudan, Egitto, Libia, Mali, … a quando l’Algeria?).

Se da un lato c’è il solito vecchio imperialismo (termine che fa storcere lo sguardo ai “modernisti” di sinistra), dall’altro non c’è anti-imperialismo, ma solo un gruppo di paesi che vogliono rinforzare il proprio capitalismo, ossia sviluppare industria, servizi, finanza, ecc. riducendo le tasse finora corrisposte ai padroni del mondo. Nulla, dunque, di dichiaratamente ostile, e, tuttavia, tutto terribilmente minaccioso!

La Russia è, suo malgrado, un paese essenziale di questo schieramento, in quanto è l’unico a possedere un dispositivo militare in grado di preoccupare gli Usa e i loro alleati. Anche la Russia, come la Cina e tutti gli altri, non ha alcun interesse a sfidare gli Usa sul terreno dell’egemonia mondiale, che volentieri gli riconoscono, avendone, tutti, un positivo riscontro: chi meglio degli Usa è in grado, per capacità militare, finanziaria e politica, di prevenire e contrastare ogni seria minaccia rivoluzionaria all’ordine capitalistico mondiale? Il comune interesse a difendere il capitalismo, non di meno, lascia inalterato l’interesse di ognuno a sviluppare il proprio capitalismo, il che comporta, appunto, la necessità di rivedere la ripartizione mondiale dei profitti. Da un lato, dunque, imperialismo Usa (ed Europa, Giappone, Australia e Canada), dall’altro un gruppo di paesi in tutto e per tutto capitalisti che cercano di farsi spazio non per sostituire i vertici della piramide, ma per salire di qualche gradino la scala di potenza e di sviluppo, ossia di profitto.

Questo secondo gruppo è sospinto dalle comuni necessità a sperimentare forme di coalizione che cerchino di contenere i pur numerosi motivi di attrito, il primo gruppo mette in campo tutti i mezzi a disposizione per impedirne la coalizione e per sabotare dall’interno ognuno dei paesi minacciosi, diffondendo “rivoluzioni colorate” nei più “estremisti” (Iran, Libia, Venezuela, Bolivia), coltivando in alcuni focolai di frammentazione interna (Cecenia, Tibet, Hong Kong, Xiniang) o nelle  periferie (Georgia, Ucraina, Vietnam, Giappone), cercando di piazzare propri Quisling in altri (da ultimo in Brasile) e, in ultimo, producendo un generale caos nelle aree contese, quelle che l’imperialismo non riesce più a tenere sotto le vecchie forme di rapina e che i capitalismi emergenti cercano di trasformare in partner per estendere i propri affari (Medio Oriente, Africa, Centro e Sud Asia).

In questo quadro l’Ucraina occupa un posto fondamentale. Aggredendola gli Usa sperano di interrompere il trend di risalita che Putin ha impresso alla Russia dopo averne raccolto i cocci provocati dalla sbornia filo-occidentale degli anni di Eltsin, e cercano di sopprimere nella culla la creazione di uno spazio economico-finanziario intorno alla Russia, con provocazioni continue che la costringano, prima o poi, a un passo falso col quale poterla additare definitivamente al mondo intero quale “imperialismo” famelico e violento.

Il progetto Usa è incocciato, però, in una aperta resistenza, sostenuta da un movimento di massa che si è ribellato alle mire di spoliazione economica e sociale che vanno sotto il nome di “diffusione della democrazia” occidentale e hanno consegnato il potere a oligarchi che per aprirsi nuove prospettive di profitto sono disposti, appunto, a svenderne le risorse economiche e umane. La disgrazia attuale di questo movimento è di non trovare all’esterno dell’Ucraina degli alleati della stessa classe che si muovano sugli stessi obiettivi e con cui imbastire un fronte comune di battaglia internazionale. L’assenza di un tale alleato ha sospinto la resistenza del Donbass nell’angusto ambito nazionalista e nell’aspirazione separatista filo-russa. Ciò nonostante, è riuscita a fermare per ora l’aggressione militare di Kiev e, soprattutto, ad alzarne il prezzo politico per il suo fronte interno, refrattario nella massa a pagare con la guerra una prospettiva di benessere che appare oggi già più aleatoria stante le “raccomandazioni” del Fmi.

Il proletariato occidentale (che non è scomparso affatto dalle fabbriche e che, inoltre, deborda ben oltre i loro confini), assuefatto alla convinzione di poter esigere una vita migliore solo se il sistema capitalista gode di buona salute, è paralizzato nell’attesa di una ripresa del capitalismo, da cui ritiene che la sua stessa sopravvivenza dipenda, imbambolato dagli Obama e dai Renzi e sfiduciato dalle Camusso, non raccoglie alcuno dei segnali di mobilitazione che vengono dall’Ucraina, come non ha raccolto quelli provenienti dall’America Latina, dal Nord Africa o dalla classe operaia cinese.

Non di meno la resistenza nel Donbass ha interrotto l’avanzata Usa e aperto un conflitto i cui esiti sono ancora aperti e si giocano su uno scacchiere sempre più vasto, che vede gli Usa (con l’Europa al traino) lottare aspramente per conservare la supremazia occidentale sullo sfruttamento dell’umanità lavoratrice con gli antichi metodi del lavoro di fabbrica associati ai metodi moderni di messa a profitto di ogni aspetto della vita. Di contro un gruppo di paesi che lottano per riscattarsi dal ruolo di tributari dell’imperialismo. Sullo sfondo mobilitazioni di masse che in buona parte del mondo non recedono dal combattere in difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro. Le lotte di queste ultime spingono gli “emergenti” a osare di più contro l’imperialismo, che, da parte sua, non rinuncia a ricercarne il consenso prospettandogli il fulgore della propria “libertà” contro il grigiore delle “dittature” che le dominano. Se da nessuna parte si vede ancora chi lavori esplicitamente alla necessaria autonomia di classe, lo smottamento dell’ordine internazionale  prosegue. Nel mentre sarebbe necessario dismettere chiavi di lettura facili ma riduttive senza rinunciare a cercare nella complessità delle situazioni i fili di una possibile ripresa.

Un’intervista all’autore del contributo qui sopra (da Radio BlackOut)

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10 ottobre 2014

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