Vittoria Biden, quali prospettive per l’impero diviso?
Il candidato democratico Biden, senatore dagli anni ’70 e vice di Obama tra il 2008 e il 2016, è il nuovo Presidente degli Stati Uniti.
Dopo giorni di testa a testa in attesa del lungo conteggio dei voti postali, ieri pomeriggio la Pennsylvania è stata dichiarata vinta dai Dem, attribuendo a Biden 20 ulteriori grandi elettori che lo hanno proiettato oltre la soglia dei 270 necessari alla Presidenza.
L’establishment democratico guidato da Joe Biden e Kamala Harris, ex procuratrice generale della California, ha davanti a sé moltissime sfide interne ed internazionali.
La campagna elettorale democratica, così come i discorsi tenuti stanotte, è stata carica di retorica ‘progressista’, dalla giustizia climatica alla fine del razzismo sistemico, dalla riduzione delle disuguaglianze al Covid-19 sono tante le promesse, ma altrettante le omissioni e le contraddizioni.
Partendo dal quadro elettorale ‘spiccio’ proviamo a fornire delle prime considerazioni sulle prospettive di un impero sempre più confuso e polarizzato, ma non per questo meno soverchiante e ‘pericoloso’.
Le ultime fasi dello scrutinio.
In attesa della mappa ufficiale dei risultati di tutti e 50 gli Stati federali, i 46 aggiudicati attribuiscono 279 grandi elettori a Biden e 214 a Trump.
I 4 Stati che mancano all’appello dovrebbero dividersi tra i due candidati: Arizona e Georgia (27 electoral votes), due Stati storicamente repubblicani passano ai Dem, mentre North Carolina e Alaska (18) rimangano di colore repubblicano.
Se così finisse la vittoria di Biden potrebbe definirsi sostanziale e di ampio margine: 306 a 232.
Come avevano scritto nell’ultimo aggiornamento sull’evoluzione elettorale, il conteggio del voto postale ha lentamente frantumato il ‘miraggio rosso’ del primo giorno di scrutinio.
Wisconsin e Michigan, stati storicamente democratici e simbolo della ribalta Trump del 2016, sono stati ottenuti da Biden, seppur con un vantaggio totale tra i due collegi di ‘appena’ 170 mila voti.
Tuttavia il simbolo della rimonta ‘postale’ di Biden è sicuramente la già citata Pennsylvania.
Nel keystone State che ospita due grandi metropoli come Pittsburgh e Philadelphia Trump è stato in vantaggio di ben 13 punti e 700 mila voti che ora dopo ora sono stati erosi fino al sorpasso democratico conclusosi con 137 mila voti di vantaggio.
Brevi considerazioni sul voto e la sua distribuzione.
Il primo dato che salta all’occhio in questa tornata elettorale statunitense è quello sull’affluenza che, con una partecipazione del 66,7% degli aventi diritto, registra il dato più alto dalle elezioni del 1900. Hanno votato in 160 milioni e, a causa della pandemia, ben il 63% ha utilizzato il voto postale o anticipato.
Biden è il Presidente eletto con il maggior numero di voti della storia: 74 milioni e 566 mila.
L’altra faccia di questo dato è che Trump ha ottenuto 70 milioni e 396 mila voti, 7,4 milioni in più del 2016, per intenderci Obama nel 2008 ne aveva presi 69,5.
Biden ha vinto e ha vinto bene, ma Donald Trump, tacciato da mezzo mondo di essere uno squilibrato, senza senso delle istituzioni, apertamente negazionista verso i cambiamenti climatici, il Covid, il sessismo ed il razzismo ha ottenuto una marea di consensi.
Ancora in attesa dei dati ufficiali, donne, neri e ispanici hanno votato come mai in precedenza, la vittoria Dem in Georgia ne è forse il manifesto. La reazione dal ‘basso’ a Trump c’è stata, la capacità dei democratici di cooptare, non interiorizzare, un rinnovato protagonismo delle minoranze semplificate nelle espressioni crude e dure di piazza del movimento Black Lives Matter, anche.
Le stars dall’arte al basket, da Hollywood all’NBA si sono pesantemente esposte verso il duo Biden-Harris ed ha pesato.
I discorsi dei vincitori sono pregni di questa cooptazione, parole di giustizia razziale e climatica si sono mescolate con il supporto alle diversità di genere. Kamala Harris, prima vice-presidente donna, figlia di un Jamaicano e di un’immigrata indiana, procuratrice ferrea nel combattere lo spaccio di droghe leggere, è l’emblema della strategia democratica.
In conclusione è necessario citare due episodi che sembrano essere il metro della contradditorietà di questa tornata presidenziale. In Florida, Stato vinto da Trump, sembra con un apporto fondamentale del ‘voto latino’, contemporaneamente alle presidenziali si è svolto un referendum sull’elevazione del salario minimo a 15 dollari. Il risultato è stato 60 a 40 in favore dell’aumento salariale.
Dall’altra parte del paese nella California stravinta dai dem (65 a 33), c’è stato un altro quesito referendario sull’inquadramento contrattuale nella gig economy.
In questo caso la vicenda merita più parole. Nel gennaio del 2020 è entrata in vigora una legge federale che costringeva aziende come Uber ad inquadrare i propri autisti come lavoratori dipendenti meritevoli quindi di diritti e prestazioni sociali quali assistenza sanitaria, indennizzo di disoccupazione, ferie, malattia e compensi aggiungitivi per gli straordinari.
Uber e Lyft hanno promosso un referendum, votato il 3 novembre, per abolire tale legge e vi sono riusciti ottenendo il 58% dei consensi.
Questi due episodi sono emblematici nel restituire la complessità del voto americano e le molteplici faglie sulle quali si muovono le istanze sociali così come le loro controparti.
Fine del Trumpismo? e sfide democratiche.
“L’eccezione” Trump, o il più in voga termine Trumpismo, rappresenta secondo noi l’immagine più plastica della crisi della rappresentanza e del patto sociale statunitense. Il “non sacrificabile american way of life” (parole di Obama) fondato su estrazione di ricchezza dal resto del mondo attraverso dollaro e armi sta facendo i conti con le rigidità di un modello di sviluppo socio-economico insostenibile sia internamente sia all’estero. Le disuguaglianze prodotte dalla miscela di monopoli hi-tech e finanziarizzazione incontrano i limiti della crescita di un pianeta al collasso ambientale.
“La nazione indispensabile” dopo aver scaricato i costi della sua egemonia sugli ‘alleati’ europei e asiatici non può più rimandare il problema ‘sistemico’ dell’ascesa cinese. Lo spazio del ‘soft power’ è finito, Trump ne è stato l’incarnazione.
Queste proiezioni esterne sono tutt’altro che slegate da una società statunitense dove la povertà, l’esclusione sociale e sanitaria sono sempre più marcate. La gerarchizzazione di genere e razziale della divisione del lavoro e dell’appropriazione della ricchezza prodotta è un asse portante del capitalismo statunitense (e globale of course). Un’impalcatura che non si scalfisce con le retoriche, per quanto vincenti sul piano elettorale, di un gruppo di potere democratico che ha fatto tesoro dell’errore ‘Hillary Clinton’ ma che non è assolutamente disposto a ripensare il sistema di potere e dominio sia esso interno o esterno.
Quale sarà la Bideneconomics? Quale sarà la spinta interna dell’asse Sanders-AOC (Alexandra Ocasio-Cortez)? Come evolverà il rapporto costitutivo tra gli Usa e la guerra?
La finanza e le lotte salariali, i movimenti femministi e di Black Lives Matters come influenzeranno i primi anni ’20 statunitensi?
La persistente egemonia Usa attribuisce a questi interrogativi un portato globale nonché di nostro interesse collettivo come agenti del cambiamento radicale. Invitiamo tutt* a porcele insieme nel primo webinar organizzato da Infoaut e Radio Onda D’urto che si terrà sabato 14 novembre alle ore 21: L’impero diviso: gli Usa di Biden tra pandemia, conflitti sociali e dilemmi internazionali.
Un’informazione di parte, non solo per conoscere il mondo ma per trasformarlo.
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