“La primavera serba non può essere fermata”: in 60.000 in piazza a Belgrado contro il governo per la quinta volta consecutiva
Riceviamo e pubblichiamo…
Ad un mese dal massacro avvenuto nella scuola di Belgrado, sabato 3 giugno le strade di Belgrado sono state inondate per la quinta volta dalle proteste contro il governo. Uniti dallo slogan “la Serbia contro la violenza” decine di migliaia di persone stanno scendendo in piazza ogni fine settimana per chiedere la fine di un clima di violenza alimentato dal governo e dai media filogovernativi.
La tragedia che ha fatto scattare l’ondata di proteste è avvenuta il 3 maggio, quando un ragazzo di 13 anni è entrato nella scuola che frequentava “Vladislav Ribnikar”, in un quartiere centrale di Belgrado, sparando colpi di pistola. Nella sparatoria hanno perso la vita otto studenti ed un custode, una ragazza è morta in seguito a causa delle ferite riportate e altri cinque studenti ed un insegnante sono rimasti gravemente feriti. Il giorno successivo, otto giovani sono stati uccisi e quattordici feriti per mano di un ventunenne a Dubona, nel comune di Mladenovac. Anche in questo caso la sparatoria ha avuto inizio in un cortile scolastico. A Belgrado altri attacchi sono stati compiuti da giovanissimi su imitazione del gesto del tredicenne.
Lo shock, il dolore, il lutto collettivo che hanno seguito l’accaduto sono stati presto sostituiti dalla rabbia da parte dei cittadini, che hanno individuato nel governo e nei media di regime i responsabili del clima di odio e di violenza nella società che hanno reso possibili i massacri. Da una parte fin dagli anni 90 i criminali di guerra vengono eretti ad eroi del popolo, occupano posizioni di potere e vengono ospitati come esperti nei talk show. In seguito alla prima protesta avvenuta l’8 maggio, è stato definitivamente coperto il murales dedicato al criminale di guerra Ratko Mladić presente nello stesso quartiere in cui è avvenuta la sparatoria, che malgrado le polemiche degli abitanti dell’edificio e i tentativi di cancellarlo, veniva puntualmente ridipinto e sorvegliato da uomini incappucciati. Dall’altra parte lo spazio mediatico è occupato da criminali comuni spesso protagonisti di interviste giornalistiche, trasmissioni televisive e reality show. Un esempio tra i molti è stata l’intervista dai dettagli morbosi fatta ad uno stupratore seriale da parte del tabloid di regime “Informer”, che ha scatenato numerose proteste lo scorso autunno. Tra i media più propensi alla glorificazione della violenza, RTV Pink e Happy TV, emittenti televisive private che a luglio scorso hanno ottenuto per la seconda volta consecutiva lo spazio sulle frequenze nazionali.
Ad alimentare la rabbia dei cittadini e la loro determinazione a scendere in piazza sono state le reazioni al massacro da parte dei rappresentanti del governo. Mentre nei giorni successivi alla sparatoria la cittadinanza si riuniva sul luogo dell’accaduto portando fiori e candele per esprimere cordoglio e tentare di elaborare una tragedia collettiva, né il presidente Vučić, né la prima ministra Ana Brnabić o altri leader istituzionali si sono mai recati sul luogo dei massacri a Belgrado o a Mladenovac. Non solo. Le richieste delle famiglie degli studenti della scuola Vladislav Ribnikar di non mandare i propri figli nei locali della scuola e di anticipare la fine dell’anno scolastico sono state rifiutate.
Così la rabbia e la frustrazione sono state riversate in piazza, con proteste sempre più partecipate che hanno bloccato le principali arterie della città e presidiato le sedi del governo e dei media. I manifestanti hanno stilato una lista di richieste, delle quali solo alcune sono state parzialmente accolte. Si chiede il cambio di gestione di RTS- la radiotelevisione pubblica- e il resoconto oggettivo delle proteste da parte dei giornalisti, il cambio dei membri dell’Agenzia di regolamentazione per i media elettronici (REM), che si occupa dell’assegnazione delle frequenze, il ritiro delle frequenze nazionali a Pink e Happy, la cancellazione di reality show e altri programmi televisivi e la chiusura dei tabloid che promuovo la violenza. E’ stata domandata l’apertura di una sessione parlamentare in cui si discuta delle responsabilità del governo e della sicurezza. Sono state inoltre richieste le dimissioni del ministro degli interni, del direttore dell’Agenzia per le informazioni sulla sicurezza (BIA-servizi segreti) e del ministro dell’istruzione, le uniche presentate pochi giorni dopo la tragedia nonostante il parere contrario del presidente Vučić.
Invece che accogliere le richieste da parte del popolo in piazza, Vučić e il suo entourage alimentano il clima di tensione e tentano dare l’immagine di una Serbia divisa tra sostenitori del governo e opposizione. I manifestanti e le figure del mondo dello spettacolo che stanno sostenendo il movimento vengono giornalmente offesi ed insultati con appellativi come “avvoltoi”, “iene”, “ustascia” (i fascisti croati). Il 26 maggio Vučić ha organizzato una contro-manifestazione con lo slogan “la Serbia della speranza”, tentando, invano, di raggiungere gli stessi numeri delle piazze anti-governative. Per fare ciò ha dovuto riempire decine di autobus non solo dal resto della Serbia, ma anche dai paesi limitrofi, minacciando e ricattando soprattutto chi lavora nel settore pubblico, il cui posto di lavoro dipende dall’obbedienza al partito di governo. Molti autobus sono partiti dalle municipalità serbe del Kosovo, dove lo stesso giorno si sono riaccese le tensioni tra i cittadini di etnia serba e le forze di polizia kosovare. Tra i manifestanti dell’opposizione vi è la convinzione che le tensioni in Kosovo vengano aizzate a tavolino, per screditare le proteste, distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica, sia locale che internazionale, e far passare Vučić come il garante della stabilità nella regione.
I manifestanti, però, non cedono alle provocazioni e rifiutano la narrazione divisiva che il governo tenta di promuovere. Lo scorso sabato circa 60.000 persone hanno marciato intorno ai palazzi governativi, dopo quasi due ore di interventi da parte di attori e altre figure pubbliche. Alle proteste partecipano persone di tutte le età: studenti, giovanissimi, ma anche le generazioni che hanno protestato contro le guerre degli anni 90 e il regime di Milošević. In tanti, infatti, gridano “c’ero anche io!” all’attivista che porta un cartello con scritto: “Perché mia mamma protesta fin dagli anni 90?”. In piazza anche le organizzazioni ecologiste e gli abitanti delle zone rurali che hanno lottato e lottano contro progetti di devastazione ambientale come la miniera di litio da parte della multinazionale Rio Tinto. Sono presenti anche i rappresentanti dell’opposizione entrati in parlamento alle scorse elezioni con la coalizione movimentista ed ecologista Moramo. Ciò che la piazza esprime è la solidarietà e l’empatia come antidoto alla violenza sistemica, la voglia di cambiare il paese per garantire la sicurezza ed un futuro ai più giovani, perché non siano costretti ad emigrare. Si lotta anche per coloro che non possono scendere in piazza perché rischiano il posto di lavoro. Si nominano tutte le vittime innocenti della violenza sistemica: i ragazzi uccisi nei massacri e le loro famiglie, le donne vittime di femminicidi, i serbi del Kosovo utilizzati come pedine per questioni geopolitiche. Viene anche ricordato l’uomo che è morto in seguito ad un malore il 26 maggio mentre dal Kosovo viaggiava per partecipare al meeting pro-governativo, esemplificativo di come le vite delle persone non hanno alcun valore per chi è al potere. I manifestanti hanno invece deciso di prendere in mano le loro vite e garantire un futuro alla Serbia. Esprimono il desiderio di costruire una società libera, democratica e sicura per loro e per le generazioni a venire. Per farlo, continueranno a scendere in piazza ogni fine settimana finché le loro istanze non verranno soddisfatte e non ci sarà un reale cambiamento. Probabilmente continueranno a scendere in piazza finché non verrà ascoltata la principale richiesta della piazza: Vučić vattene!
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