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«BORGHESIA MAFIOSA» E CICLO DEI RIFIUTI

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La recente inchiesta Mala pigna dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, di quanto ampio sia il circuito del business dei rifiuti e soprattutto di quanto sia “trafficata” la strada del loro smaltimento. Rimandiamo alle tante informative di cronaca per la conoscenza dei nominativi di politici, magistrati, forze dell’ordine e professionisti che rendevano agevole tale traffico. A noi interessa soprattutto il dato sociale e politico e i numeri che rendono il ciclo dei rifiuti appetibile al capitale e alla borghesia mafiosa.

Il Ministero della transizione ecologica ha recentemente pubblicato i decreti con cui sono stati approvati i criteri di selezione di progetti relativi a raccolta differenziata, a impianti di riciclo e a iniziative “flagship” (si tratta di una delle sette iniziative “faro” della strategia Europa 2020) per le filiere di carta e cartone, plastiche, RAEE e tessili. È una voce importante del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Missione 2, Componente 1) che prevede 2,10 miliardi di euro di investimenti.

In tandem con il Governo, non poteva mancare lo studio padronale di settore necessario ad avallare le scelte del primo. Fra qualche giorno Utilitalia, l’Associazione di categoria che riunisce numerose imprese operanti nei servizi idrici, ambientali ed energetici, presenterà a Ecomondo, l’evento riminese di riferimento in Europa per la cosiddetta transizione ecologica e l’economia circolare, il suo ultimo rapporto sul settore rifiuti e sui fabbisogni impiantistici fino al 2035. Capire bene come le multiutilities del settore, nel prossimo decennio, intendono muoversi è propedeutico a qualsiasi ragionamento che non voglia fermarsi sulla soglia del dato di fatto o a un’analisi del fenomeno ex post.

Secondo tale rapporto le regioni del Centro-Sud spediscono in giro per il resto d’Italia circa 2,8 milioni di tonnellate all’anno di rifiuti, con spese extra e multe UE che finiscono caricate direttamente sulle tariffe di smaltimento e, dunque, sulle tasse dei cittadini. Si parla di 140 milioni di euro di cui 75 aggiuntivi sulla Tari e altri 70 milioni di multe per violazione delle direttive dell’Unione europea. Sugli utenti finali, inoltre, pesano le spese di trasporto dei rifiuti verso altre regioni o Paesi europei. Una cifra destinata ad aumentare se non verranno presi provvedimenti, poiché Bruxelles impone a tutti i Paesi membri di ridurre la quota di conferimento entro i prossimi quindici anni. Secondo Utilitalia, si tratta di una spesa causata soprattutto da ritardi cronici nell’implementazione di una adeguata impiantistica e dall’eccessivo ricorso alle discariche. Stando ai dati del 2019 raccolti da Utilitalia (che si dovrebbero confermare anche a fine 2021) finisce in discarica il 21% dei rifiuti urbani, pari a 6,2 milioni di tonnellate all’anno. 

Ma su quale sistema di gestione del ciclo dei rifiuti oggi punta Utilitalia dopo aver foraggiato, per decenni, l’utilizzo indiscriminato del “sistema discariche”? Il rapporto è abbastanza chiaro al riguardo: via le discariche e dentro ecodistretti, biodigestori anaerobici (dai quali produrre gas) e inceneritori (per la produzione di energia).

La fotografia nel settore rifiuti che traccia Utilitalia evidenzia il divario tra le regioni settentrionali e quelle del centro-sud, con gli impianti di smaltimento che sono concentrati nelle prime. 

Di fatti il vicepresidente dell’associazione di settore, Filippo Brandolini, ha recentemente affermato che «gli attuali impianti di trattamento di rifiuti urbani sono numericamente insufficienti e mal dislocati sul territorio, costringendo il nostro Paese a continui viaggi dei rifiuti tra Regioni e a ricorrere ancora in maniera eccessiva allo smaltimento in discarica». E in assenza di provvedimenti che individuino una soluzione «sarà impossibile raggiungere gli obiettivi Ue che prevedono, entro 15 anni, il raggiungimento del 65% di riciclaggio effettivo e un utilizzo delle discariche per una quota inferiore al 10%»[1].

È un’affermazione senz’altro vera, ma propedeutica all’affondo di parte. Il rapporto stima che occorrano almeno 30 nuovi impianti per centrare gli obiettivi Ue. Impianti che comprendano sia quelli per il trattamento di rifiuti urbani come i biodigestori anaerobici (da cui si può ricavare il cosiddetto biogas che di bio ha ben poco) sia inceneritori per il “recupero” della frazione non riciclabile (da cui ricavare energia): il tutto per smaltire 5,8 milioni di rifiuti che non andranno più in discarica, ma che diventeranno ulteriore “materia prima” necessaria per la riproduzione del capitale.

Considerando poi la dotazione attuale, il dossier mette in evidenza il divario tra Nord e Sud del Paese: per quella data, il Nord risulterà autosufficiente per ciò che attiene all’organico e in debito di 240 mila tonnellate per quanto concerne l’incenerimento; il Centro avrà bisogno di incenerire ulteriori 1,2 milioni di tonnellate di organico e di trattarne altrettante; il Sud avrà un fabbisogno di 600 mila tonnellate di scarti da bruciare negli inceneritori e di 1,4 milioni di tonnellate di frazione organica. Per la Sicilia il deficit arriverebbe a 500 mila tonnellate per l’incenerimento e 600 mila tonnellate per l’organico, mentre la Sardegna sarebbe invece autosufficiente per l’organico, ma presenterebbe un deficit di 90 mila tonnellate per l’incenerimento.

Brandolini spinge, dunque, per l’implementazione di nuovi impianti: senza impianti di digestione anaerobica e termovalorizzatori non è possibile chiudere il ciclo dei rifiuti in un’ottica di economia circolare. Si continuano a ipotizzare scenari con tecnologie che al momento non sono disponibili o immediatamente applicabili su scala estesa, e intanto si rimanda un problema non più procrastinabile[2].

Dunque, la soluzione migliore, in attesa di nuove tecnologie “green”, è quella dell’impiantistica “old style”: incenerire rifiuti e produrre gas da biodigestione anaerobica, due tecnologie non propriamente a impatto zero su ambiente e salute.

Nel frattempo, fintantoché anche la nuova impiantistica, che nascerà già obsoleta, non verrà implementata, i rifiuti continuano ad andare in giro per l’Italia. Delle 30,1 milioni di tonnellate di rifiuti urbani prodotte nel 2019 circa il 10% non viene smaltita nella regione che le produce. In particolare, è il Nord Italia che accoglie almeno 2 milioni di tonnellate all’anno, pari al 14% dei rifiuti prodotti in tutto il Settentrione. Le Regioni del Nord conferiscono in discarica appena l’8% dei rifiuti, non per virtuosismo ambientalista, ma per la presenza di una rete di inceneritori che riduce, bruciandoli, al minimo gli scarti da conferire in discarica. Da solo, il Settentrione ha già ora raggiunto gli obiettivi europei.

Non sono però le regioni del meridione quelle messe peggio. Il Centro Italia, per insufficienza di impianti, esporta il 17% dei rifiuti prodotti e ne conferisce in discarica il 37,5%. Poco distante il Sud, con il 16% della produzione di rifiuti che viene spedita fuori regione e una quota di conferimento in discarica del 37%. Sono percentuali che violano le direttive Ue e per le quali paghiamo multe salatissime ogni anno; non è un caso che l’Arera, l’Autorità nazionale di regolazione per energia, reti e ambiente, sta predisponendo un nuovo meccanismo tariffario per la Tari (la tassa comunale sui rifiuti) attraverso il quale verranno assegnati premi ai comuni che aumenteranno la quota di raccolta differenziata e penalizzazioni per quelli che si manterranno sotto un certo standard. Il che, tradotto in soldoni, significa che la Tari sarà ancora più salata per chi abita in regioni poco “efficienti” come la Calabria, ad esempio.

In questo sistema, che non sembra per il momento destinato a mutare, i cittadini pagano un doppio scotto. Il primo legato alle politiche inefficienti di gestione del ciclo dei rifiuti che ha come effetto un pessimo servizio di raccolta, riciclo e smaltimento; il secondo è quello più  oneroso, perché legato agli effetti sociali ed economici indotti dal meccanismo capitalista di centralizzazione dell’intero ciclo di valorizzazione dei rifiuti attraverso la logica di accorpamento macro-territoriale auspicata dal capitale per facilitare un’economia di scale i cui profitti risultano direttamente proporzionali alla centralizzazione del ciclo dei rifiuti in pochi enormi impianti settorializzati come discariche, ecodistretti e inceneritori[3].

I fenomeni legati allo smaltimento illegale dei rifiuti sono strettamente funzionali al ciclo di valorizzazione del capitale: gli scarti di produzione (e, dunque, del consumo) eccessivamente onerosi da smaltire per il comando capitalista, trovano strade secondarie, scorciatoie da percorrere senza pastoie burocratiche, per poi essere occultati in aree industriali abbandonate, in vecchie cave dismesse, in discariche illegali, spesso trovando anche la via extra-continentale dello smaltimento. La ‘ndrangheta ha da anni fiutato l’affare trasformandosi in soggetto imprenditoriale o fornendo servizi di smaltimento occulto (ma spesso anche legali) e questo perché, al di là dell’epifenomeno cronachistico, la ‘ndrangheta e il capitalismo sono anelli della stessa catena di valore. È un dato di fatto che le mafie si siano rafforzate e continuino a svilupparsi dentro il capitalismo, oggi più di ieri. Nel 1972 Umberto Santino sviluppò un’ipotesi analitica che poi farà scuola: la mafia come borghesia, cioè non solo come organizzazione criminale ma come classe, o frazione di classe, dominante. Più esattamente, l’organizzazione criminale viene  considerata come componente di un blocco sociale transclassista, al cui interno la funzione egemonica è svolta dagli strati più ricchi e potenti, legali e illegali, definita «borghesia mafiosa»[4]. Dal canto suo lo Stato corre ai ripari attraverso le eroiche gesta giudiziarie di pm e giudici, ma senza mai smettere di assecondare le necessità del grande capitale industriale. Così facendo lo Stato, gli imprenditori e la ‘ndrangheta si muovono su un piano di “mutuo aiuto” finalizzato allo stesso obiettivo di accumulazione capitalistica  e di potere. 

La redazione di Malanova

Note

[1] L. Pagni, Il “turismo” dei rifiuti urbani ci costa 150 milioni in più all’anno, “la Repubblica (Affari&Finanza)”, 18 ottobre 2021.

[2] Ibidem.

[3] A. Gaudio – G. Montuoro, Emergenza o lotteria? Qual è lo stato dei rifiuti in Calabria?, “Il Ponte”, n. 2, marzo-aprile 2020.

[4] U. Santino, La borghesia mafiosa, CSD Giuseppe Impastato, Palermo 1994.

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