Cingolani e il nucleare: la risposta (non del tutto) giusta a una domanda sbagliata
Di Angelo Piga da Le Parole e Le Cose
Negli ultimi giorni, la scuola di formazione politica di Italia Viva ha fornito spunti per due grosse polemiche: una riguarda la convenienza, per i suoi giovani partecipanti in rampa di lancio nella politica-pop renziana, di ostentare il Rolex; l’altra segue le dichiarazioni del ministro per la transizione ecologica Roberto Cingolani sull’ambientalismo e sull’opportunità di riutilizzare l’energia nucleare (l’intervento completo può essere visto sul canale YouTube di Renzi). Sono affermazioni che vanno prese molto sul serio:
“Il mondo è pieno di ambientalisti radical chic ed è pieno di ambientalisti oltranzisti, ideologici: loro sono peggio della catastrofe climatica verso la quale andiamo sparati, se non facciamo qualcosa di sensato. Sono parte del problema, spero che rimaniate aperti a un confronto non ideologico, che guardiate i numeri. Se non guardate i numeri rischiate di farvi male come mai successo in precedenza.”
Poi sul nucleare:
“si stanno affacciando tecnologie di quarta generazione, senza uranio arricchito e acqua pesante. Ci sono Paesi che stanno investendo su questa tecnologia, non è matura, ma è prossima a essere matura.”
“Io voglio energia sicura, a basso costo e senza scorie radioattive. Se è nucleare di quarta generazione diventa semantica. È vietato nell’interesse del futuro dei nostri figli ideologizzare qualsiasi tipo di tecnologia. Quando avremo i numeri decideremo”
Sulle accuse alla categoria immaginaria di “ambientalisti radical chic” (avranno pure loro il Rolex?), possiamo sorvolare. Gli ambientalisti “oltranzisti” hanno le spalle abbastanza larghe per non rimanerci male se Cingolani non li vuole più tra i suoi amichetti. Sul fatto che siano “ideologici”, quello è certo. Nemmeno la si deve prendere come offesa, sapendo che a Cingolani ciò che dà fastidio è solo che l’ideologia che professano sia diversa dalla sua.
Le dichiarazioni sul nucleare meritano invece più attenzione e la parziale marcia indietro del ministro, che in un’intervista alla Rai a margine del forum Ambrosetti, si è giustificato dicendo che la sua era solo “una lezione”, non basta a nascondere le intenzioni reali, mai sopite, di tante lobby industriali, di cui Cingolani si è fatto portavoce (nello stesso forum, la commissaria UE per l’energia, ha sostanzialmente ripreso i concetti del ministro). È vero che in Italia ci si è già opposti al nucleare con due referendum, ma è ingenuo pensare che questi ci possano difendere per sempre. Le leggi cambiano insieme ai rapporti di forza sociali che le sostengono, ma soprattutto, come Cingolani ci fa giustamente notare, cambiano anche le tecnologie. Inoltre, la sfida che abbiamo davanti è globale e purtroppo non sarà un referendum italiano a bloccare la proliferazione nucleare.
Del resto, anche nella stessa galassia ecologista emergono alcune tendenze possibiliste rispetto al nucleare, ne è esempio il “manifesto eco-modernista”, stilato dall’influente think-tank statunitense Breakthrough Institute.
Nell’ottica di una strategia di opposizione internazionale al nucleare è necessario trovare risposte molto più solide. Proverò di seguito a delinearne giusto un paio, partendo dalla constatazione che il ricorso al nucleare è in realtà soltanto un piccolo tassello necessario a sostenere il paradigma capitalista di sviluppo e relazioni sociali.
Inizialmente, evidenzierò come la crisi ambientale è spesso erroneamente intesa limitatamente alla sua accezione del riscaldamento globale dovuto alla concentrazione di gas serra in atmosfera e che il nucleare è la risposta (sbagliata) a questa visione parziale. Nella seconda parte dell’articolo, cercherò di mettere in luce almeno due fra i dispositivi retorici alla base dell’impostazione del discorso di Cingolani: l’appello feticista ai “numeri” (e quindi un uso strumentale della scienza) e l’ideologia della “crescita infinita” come unico orizzonte possibile.
Su un’equazione sbagliata e i limiti dell’energia nucleare
Una catena di implicazioni che ricorre spesso nei discorsi sul cambio climatico è la seguente:
aumento delle emissioni di anidride carbonica ⇒ aumento della temperatura ⇒ crisi ecologica.
La leggiamo come: l’aumento per cause antropiche dell’anidride carbonica (e altri gas serra) in atmosfera, ha provocato il riscaldamento globale, che a sua volta è causa della crisi ecologica. La crisi ecologica è intesa in prima approssimazione come: cambio del clima, aumento di fenomeni atmosferici estremi, estinzioni di massa, aumento del livello del mare. C’è però un rischio molto serio nel racchiudere in quell’equazione il problema della crisi ambientale: infatti se ne potrebbe dedurre che lasciando tutto così com’è (modello economico, organizzazione sociale, stili di vita), ma azzerando le emissioni di gas serra, la crisi ecologica si risolverebbe. Se così fosse, i nuclearisti avrebbero ragione: la fissione nucleare non produce gas serra e con una transizione al nucleare della sola energia per scopi industriali, si ridurrebbero le emissioni di più del 20%. Ovviamente, incombe la spada di Damocle della sicurezza del nucleare, Chernobyl e Fukushima stanno lì a ricordarcelo. Ma Cingolani è ottimista sul nucleare di IV generazione.
Qua si aprono due fronti, riassumibili in due domande:
1) Esiste un nucleare sicuro?
2) l’equazione sopra è vera? Cioè, di nuovo: è vero che “semplicemente” diminuendo le emissioni di anidride carbonica, la crisi ecologica si risolve?
Alla prima domanda, la risposta è no. Per quanto possano minimizzarsi i fattori di rischio, un incidente avrebbe sempre un impatto incalcolabile. Col nucleare di IV generazione, si ridurrebbe di molto la produzione di scorie, ma non totalmente. Il problema dello stoccaggio rimane. Soprattutto, Cingolani e i pro-nucleare assumono implicitamente la capacità di mantenere nel tempo gli alti standard di sicurezza necessari nella filiera nucleare: una fiducia, questa sì ideologica, sulla stabilità della nostra società, una scommessa che è un’ipoteca sulla vita per un tempo infinito. Ma un’altra domanda cruciale a corollario è: il nucleare di IV generazione esiste? Non ancora. Cingolani parla di prototipi, pronti se va bene fra dieci anni, non si capisce con quale applicabilità. Il suo approccio nasconde quindi un ingenuo tecno-utopismo (o tecno-ottimismo): “questa tecnologia non è matura, ma è prossima a essere matura”. Infine teniamo sempre presente il nucleare è energia non rinnovabile (è vincolato alle risorse dell’isotopo 235 dell’uranio, che è presente in quantità finite sulla terra) e ha alti costi di estrazione umani e ambientali.
Alla seconda domanda la risposta è meno netta, perché quella scritta è un’equazione semplicistica. Puntare infatti il dito sui soli gas serra come causa della crisi ambientale è riduttivo, ma Cingolani sembra assumere la catena di implicazioni come base del suo ragionamento. La crisi ecologica invece ha molte declinazioni oltre al riscaldamento globale, ad esempio, tra le altre: deforestazione e perdita di biodiversità (dovute all’agroindustria e all’urbanizzazione selvaggia), inquinamento di falde acquifere, mari e corsi d’acqua (per materiali plastici e altri composti chimici), acidificazione degli oceani. Queste sono allo stesso tempo “effetti e cause” del riscaldamento globale: come esempio banale ricordiamoci che l’aumento della temperatura provoca siccità e desertificazione, mentre con la graduale scomparsa delle foreste (e aree verdi in generale, terrestri e marine), diminuisce la capacità di assorbire anidride carbonica dall’aria. La riduzione della biodiversità, l’agroindustria e il sistema di trasporti globale sono inoltre causa di spillover ed epidemie umane ed epifitie (epidemie delle piante). Detto in altri termini, la complessità della biosfera ci impone di non poter semplificare le dinamiche in atto con semplici equazioni deterministiche o banalizzazioni “causa-effetto” unidirezionali.
Due dispositivi retorici: la verità dei numeri e la crescita infinita
Questi brevi ragionamenti sono sufficienti a metterci davanti ad almeno due punti critici che dovrebbero accompagnare qualunque dibattito sulla transizione ecologica: il primo è in che senso ci affidiamo ai numeri e alla scienza, il secondo è il tema della crescita.
Il “numero” è la stella polare per Cingolani: “spero che […] guardiate i numeri. Se non guardate i numeri rischiate di farvi male come mai successo in precedenza”…“quando avremo i numeri decideremo”. Per Cingolani ci sono pochi dubbi, i numeri saranno certamente dalla sua parte. Ma anche in questo caso, facciamo lo sforzo di non fare del ministro l’obiettivo della critica, ma piuttosto immaginiamolo come portavoce non troppo raffinato dell’ideologia scientista che usa il numero come feticcio. Quando parla di questioni tecniche, un qualsiasi scienziato (e Cingolani lo è) impone, anche involontariamente, un principio di autorità che acquisisce di diritto in quanto detentore di quel particolare sapere basato sul “numero”. Ma cosa sono i numeri se non la risposta ad una domanda formulata in termini matematici? L’obiettivo della critica non deve essere quindi la risposta, ma la domanda: le domande non sono mai neutrali, ma riflettono rapporti di potere. Ad esempio, la domanda sottintesa di Cingolani può formularsi così: il ricorso al nucleare è utile per diminuire le emissioni di gas serra ed economicamente conveniente rispetto alle fonti fossili? La risposta è con tutta probabilità affermativa, ma abbiamo visto sopra che la domanda è infida, non centra il punto sul cambiamento climatico. Voglio essere chiaro: qui non si tratta di non affidarsi alla scienza. Semplicemente, occorre ricordarsi che la comunità scientifica è un sistema aperto e partecipa al gioco più grande dei rapporti di potere, che ha come posta in palio le domande. Alla formulazione delle domande devono partecipare più soggetti possibili, umani e non umani, dalle loro prospettive, con i loro corpi, saperi e interessi particolari. Quando è il caso, le risposte saranno formulate in termini matematici, altrimenti in termini pratici o discorsivi.
Passiamo al secondo punto critico, quello della crescita. In questa fase storica, il ricorso al nucleare come soluzione al problema delle emissioni è una mistificazione che sottintende l’ennesima resa incondizionata al modello di sviluppo capitalista e a un suo problema fondamentale: non è possibile una crescita infinita della ricchezza intesa come aumento del PIL. Più precisamente, è falsa l’idea che la crescita del PIL possa “disaccoppiarsi” dal deperimento delle risorse naturali, che sono invece finite e non rinnovabili. L’esistenza dei “limiti dello sviluppo” in effetti entrò con forza nel dibattito politico nel 1972, con l’omonimo rapporto del MIT. I risultati del rapporto furono però progressivamente depotenziati in favore del nuovo concetto-chiave “sviluppo sostenibile”, dimostratosi alla lunga un paradigma discorsivo tanto buono per mantenere viva la speranza di riformare il capitalismo in senso verde, quanto fallimentare nei fatti.
Cingolani nel suo intervento ribadisce più volte la necessità di agire in fretta perché la catastrofe climatica procede inesorabile. Non si può che essere d’accordo con lui, che certamente non è un negazionista climatico. Purtroppo questo non basta e anche al netto degli attacchi infelici agli ambientalisti, la sua visione rimane limitata a questioni spacciate per tecniche, ma che nascondono una carenza di immaginazione e visione politica. Oppure viceversa, nascondono una chiara linea politica che vuole essere giustificata come unica possibile, in quanto tecnicamente ineccepibile: un’immersione in quello che Mark Fisher chiamava realismo capitalista. Ad esempio (si veda il suo intervento completo) continui sono i riferimenti fatalisti alla quasi impossibilità di convincere i paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) a partecipare alla transizione ecologica. Da un lato, paternalisticamente, accetta il loro diritto ad inquinare per arrivare a più alti standard di benessere, dall’altro non vede nessuna alternativa a un certo tipo di sviluppo, che non sia semplicemente l’abbandono dei combustibili fossili. Dimentica però che le ragioni delle emissioni trascendono il livello nazionale e parte delle emissioni di gas serra, la deforestazione etc…dei BRICS, sono in realtà dovute alla produzione di beni da esportare in occidente e a ragioni storiche coloniali delle quali l’occidente è responsabile. A tutto ciò si aggiunge una completa indifferenza a qualunque divisione trasversale di classe o reddito nelle responsabilità delle emissioni, mentre è risaputo che le persone ricche inquinano di più.
In conclusione, le soluzioni tecnologiche sono certo auspicabili, non è però immaginabile che queste non si accompagnino a un cambio di paradigma culturale. È anzi più corretto pensare che solo un cambio di paradigma culturale possa veicolare i giusti cambi tecnologici. Il problema da risolvere non è come non emettere gas serra continuando a “crescere”, ma come “smettere di crescere” trovando un equilibrio ecologico e sociale armonioso, immaginando al contempo un nuovo modello di crescita: una decrescita del PIL, e una crescita di relazioni sociali giuste, di relazioni virtuose con gli ecosistemi, che difendano la biodiversità, eliminino le disuguaglianze geografiche, di classe, genere e razza e cultura. La diminuzione di emissioni di gas serra sarà, si spera, naturale conseguenza.
Twitter: @angelopiga
Nota: per orientarsi nel dibattito sulle cause della crisi climatica e ambientale, le sue ripercussioni in vari ambiti della vita e la molteplicità di proposte per uscirne, consiglio il terzo numero di «Dinamoprint», in particolare la sezione “Ecologia” e due bellissimi libri usciti recentemente: Dialoghi sulla pandemia (redstar ed.) e Pluriverso – dizionario del post-sviluppo (orthotes ed.)
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