
Il paradigma ‘grandi opere’ e il caso MOSE

Ne abbiamo parlato con Paolo Cacciari, giornalista free-lance veneto, autore di un commento sul Manifesto di oggi:
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Qui di seguito, l’articolo di Paolo Cacciari uscito oggi sul Manifesto
Mose bipartisan, ecco l’origine perversa del «partito del fare»
l progetto della chiusura delle bocche di porto della Laguna di Venezia, il più grande intervento di ingegneria civile mai costruito in Italia, è stato il prototipo delle «grandi opere». In tutto. Nella filosofia emergenzialista che lo presiede — la grande alluvione del 4 novembre 1966 sembrava giustificare una decisione rapida e rassicurante, in barba ad ogni esigenza di approfondimento degli studi scientifici.
Nella delega concessa al sistema delle  imprese private giudicato dai decisori politici il più competente  ed efficiente non solo nella realizzazione delle opere, ma anche  nella loro ideazione e progettazione – condannando le  università, il Cnr e gli organi tecnici dello stato a fare da  supporto servente alle imprese. Nella deroga alle procedure  ordinarie di affidamento, verifica e controllo delle opere  pubbliche – date in concessione ad un unico soggetto, anticipando  il meccanismo del general contract. Nel generoso ricorso  al credito bancario (a proposito dei motivi che hanno generato il  debito pubblico!) – procedura che poi sarà perfezionata con il project financing.
 Il Consorzio Venezia Nuova nasce nel 1982 sotto gli auspici di De  Michelis (Partecipazioni Statali), Nicolazzi (Lavori Pubblici)  e Fanfani (presidente del Consiglio). Comprende tutte le maggiori  società di engineering pubbliche e private, dalla Impresit della  Fiat (a cui subentrerà la Mantovani) alle Condotte d’acqua dell’Iri.  E poi: Lodigiani, Maltauro, Impregilo fino alle cooperative  emiliane CCC. Primo presidente del CVN è Luigi Zanda, proveniente  dalla segreteria del ministro Cossiga.
Negli stessi anni nasce anche il Tav e il Ponte dello Stretto di Messina. L’Italia del «fare» — per chi ha perso la memoria — nasce allora.
 Ma per superare gli evidenti vizi giuridici di un’opera affidata in  concessione a trattativa privata e per di più su un «progetto  preliminare di massima» mai approvato dal Consiglio Superiore  dei Lavori Pubblici, ci fu bisogno di una legge speciale (legge 798  del 29 novembre del 1984). Ad opporsi fu solo il Pri con il ministro  Bruno Visentini, come io stesso riconoscevo in un saggio di tanti  anni fa, Appunti per una storia del Progettone («Oltre il  ponte», n. 17, 1987), in cui definivo l’oggetto della convenzione tra  Stato e CVN: «un insieme di opere ancora indeterminate, tutte  comunque assicurate da una forma di pagamento a piè di lista».
Nasce così lo strapotere del CVN in  città e non solo. Crocevia di smistamento di ogni genere di appalti,  anche quelli non direttamente afferenti al Mose. Punto di  equilibrio degli interessi bipartisan.
 A dire il vero un ripensamento ci fù all’epoca di Tangentopoli. Con  una legge del 1993 (n.527, art. 12, comma 11) si dava mandato al  Governo di «razionalizzare» le procedure di intervento a Venezia  così da «separare i soggetti incaricati della progettazione dai  soggetti cui è affidata la realizzazione» e costituire una  agenzia pubblica. Inutile dire che nulla sostanzialmente fu fatto  per mutare la situazione. Nemmeno quando nel 1998 la Commissione  nazionale per la Valutazione dell’Impatto Ambientale dette un parere  sostanzialmente negativo al progetto.
In soccorso del Mose giunse la nuova Legge Obiettivo di Lunardi-Berlusconi (2002) che ha consentito ai vari governi, da ultimo quello Prodi con Di Pietro ministro ai Lavori Pubblici (con un voto a maggioranza nel Consiglio dei ministri), di avocare a sé le decisioni tecnico-progettuali e di approvare definitivamente il Mose nel 2006. Fu il colpo di grazia anche per i movimenti ambientalisti e l’assemblea permanente contro il Mose. Da allora una valanga di massi, cemento e ferro è stata scaricata sulle bocche di porto. Il Consorzio Venezia Nuova aveva vinto. Ora sappiamo che sei miliardi di finanziamenti diretti, più tutti quelli per le opere complementari di difesa a mare del litorale, di consolidamento delle rive e delle fondamenta, di restauri vari, sono il prezzo con cui il «partito del fare» (e del rubare) si è comprato la città.
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