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Manifestazione NoTriv a Gesualdo (Av). Lupi, briganti e noi


Lupi, briganti e noi

Gesualdo (AV), 3 Gennaio 2014    

La prima parola che viene alla mente è “incanto”. Giacché incantevole è ciò che ci circonda. Colline innevate solcate da sentieri reticolari e costellate di poderi, come sentinelle. La luce di gennaio incendia l’orizzonte. Pomeriggio. Tramonto. Ormai ci siamo dentro. No, non interverremo dal palco. Non siamo ancora pronti a farlo, a rilanciare la battaglia e riscaldare cuori infreddoliti. Ma quella denominata NoTriv è una barricata del conflitto che – dopo Manfredonia, Potenza, Melfi e alcune assemblee cittadine – non guardiamo più con distanza. O col sottinteso scetticismo col quale ci si approccia alle questioni ambientali che coinvolgono il ventaglio d’istanze di intere comunità locali. Lo Sblocca Italia ha fatto il resto. Obbligandoci a studiare la realtà come certi severi, odiosi maestri di De Amicis. Libro Cuore. E qui si parla di lupi. Di trivellazioni esplorative. Di inquinamento dell’aria, delle falde acquifere. Di uno stupro paesaggistico in zona sismica. Si parla del disprezzo assoluto e totale per il parere e per le sorti delle popolazioni. Un disprezzo sfaccettato, multiforme, mai univoco. A più voci. Quello del governo centrale sulle amministrazioni locali. Quello del capitale monopolistico sul bene collettivo. Quello per la consolidata superstizione della democrazia rappresentativa. Gesualdo, quasi quattromila anime nel cuore dell’Irpinia, l’avevamo già incontrata, nel nostro peregrinare. Ricordiamo ancora il suo castello rinascimentale, la cattedrale e il bar in piazza. Un bel paese, come spesso capita di incontrarne su questo e sull’altro versante dell’Appennino meridionale. Col suo portato di case e chiese, ma soprattutto con la sua dote di comunità. Al bar della piazza, l’ultima volta, abbiamo bevuto Biancosarti e parlato con gli avventori abituali, a lungo, riscontrando tutte quelle similitudini perdute, recondite, quasi arcaiche, che ci fanno simili e umani. Che arricchiscono e fanno sentire migliori. Non sapevamo, all’epoca, che il paese si fosse già mobilitato, mesi prima del nostro capitarci per caso, contro la forzata svolta della capitalistica destinazione d’uso. Insieme ad altri sessanta paesi del circondario. Del resto, solo uno stolto, un deviato o un perverso, ammirando l’incanto delle colline innevate, può far correre il proprio pensiero ad una presunta vocazione petrolifera del territorio. Inutile, tra l’altro, persino qualora realizzata. Per lo scarso impatto occupazionale, per la sua irrisoria resa a livello di fabbisogno, per i suoi danni irreparabili. Di queste “tragedie che si potevano evitare” sono pieni i comunicati stampa dei portavoce di partito.     

Otto grappe bianche e due Peroni piccole, al bar nei pressi del concentramento, ci costano dieci euro. Soltanto. Facciamo un secondo giro d’obbligo, mentre il barista legge il nostro volantino e altri manifestanti sorbiscono caffè bollente prima della scarpinata. Fa freddo, si gelano le mani. Mucchi di ghiaccio a rendere infidi i marciapiedi. Il locale s’anima di confronti. Perché è questo lo strascico più evidente e involontario dell’arroganza del potere, dello Sblocca Italia e del disprezzo di cui sopra. Non una voce, una guida, un parere. Non una versione alla quale uniformarsi. Ma un racconto corale, collettivo. Alle preoccupazioni del signore di Paternopoli, risponde l’esempio del ragazzo di Rocchetta Sant’Antonio; a quelle di Frigento, un giovane della Val d’Agri. Quel che un tempo era il Sannio, il Grande Sannio. Nell’agorà di un bar. Si parla di pozzi, di aziende colluse, di politicanti senza scrupoli o pietà. Ma anche di terra. Sì. C’è tanta terra nelle parole di questa razza contadina sparpagliata tra monti e valli di tre regioni, come coriandoli a Carnevale. Un compagno di Teramo parla di castagne e di piattaforme off-shore nel ventre dell’Adriatico. È vero, gli fanno eco in tanti, le castagne con crescono più. Noi – lo diciamo ai compagni di Rionero – non siamo qui per solidarizzare con le sventurate popolazioni irpine o lucane. Noi siamo nel reparto caldaie a spegnere un rogo. Sul ponte a sversare in mare acqua imbarcata. Un progetto esplorativo alla ricerca dell’oro nero è già attivo nel territorio del Salice. Che è Foggia. La nave è comune. Una telefonata. Si saluta e si va. Il corteo s’è già mosso, oltre un curvone a gomito che ascende verso la campagna. Svoltiamo l’angolo. Un bel bosco di teste. Ipotizziamo non meno di duemila persone. Ci intrufoliamo alla coda. Dietro di noi solo le bandiere dei ferrandiani. E del comitato di Paternopoli, per l’appunto. Qualche sbirro. Srotoliamo lo striscione. Qualcuno ci ringrazia. “Stessa barca, signora! Stessa barca”. Dagli sguardi abbiamo l’impressione di essere giunti da lontanissimo. Anche l’esercizio della solidarietà sembra pratica desueta. Da rivitalizzare. Più avanti ci sono i compagni di Napoli. Due pullman, per loro. Uno da Benevento. E diverse sciarpe biancoverdi dell’Avellino. Una sola bandiera grillina. Sembra qualitativamente altra cosa, questa mobilitazione di popolo, rispetto a quella di Potenza. È evidente che c’è stato un lavoro politico, a monte. Che non è solo la protesta – viscerale, umorale, istintuale – a fare la voce grossa nell’impotenza dell’inascolto. Ma c’è altro. Ci interroghiamo sulla vitalità e le presenze residue della vita di sezione. Non di rado, in questi anni di deriva parlamentare, ci è capitato di imbatterci in paesi e borghi dove ancora, come in un culto pagano, in stanze dai tavoli di legno grezzo, reggono le icone del Novecento. Qui di sicuro c’è lo zampino di Rifondazione, ma anche diversi vessilli di Sel. Nel testo che distribuiamo ai margini e appiccichiamo ai pali della luce, invochiamo la morte della delega. Del resto, da Renzi in poi, è talmente evidente l’inutilità d’esprimere rappresentanti locali che non sembriamo neppure noi – autonomi ed anarchici – gli aguzzini del sistema. Le nostre parole scivolano sui fatti come ovvia constatazione, più che come auspicio. Ma è la pratica a dover contaminare. Auto-organizzazione, auto-rappresentazione del bisogno. E zero sciacalli. Chiediamo ai ferrandiani di allontanarsi quel tanto che basta da non venire nelle foto dei reporter. Fuori dalle urne, dietro la barricata! La campagna si apre dinanzi ai nostri occhi e sotto ai nostri piedi congelati. A trecentocinquanta metri dall’ultima casa del paese, comincia la zona interessata alle trivellazioni. Con tanto di impianto presidiato dai carabinieri. Una follia. Un paio di petardi sanzionano l’area, indicando un nemico concreto. Che qua a forza di sparare a casaccio, va a finire che confondiamo il concreto con l’obiettivo teorico. Invece, come in Val Susa, le lotte si vincono sul campo. Col numero, la determinazione, la coscienza. E il nemico reale. I trattori s’aggregano e guidano il corteo, che come un serpente dalla testa luminosa, s’addentra nel buio delle colline. Aggira il bosco, prima di rientrare in paese. Noi, nel frattempo, siamo andati più avanti. Stavolta nessuna maestrina di sinistra ci chiede di scoprirci il volto. Siamo sotto lo zero. Il paese è addobbato di luci natalizie. Ci dicono che sono in pochi quelli giunti da Bisaccia, da Lacedonia e da altri posti attigui. Abbiamo bisogno di vittorie per alimentare l’incendio. Non possiamo accontentarci dell’onore delle armi. In piazza ci sono due bracieri. In uno, quello circondato da anziani con la coppola e i bicchieri di vino rosso, zampilla un bel fuoco vivo. L’altro è il nostro. Che sia una metafora? Striscione al muro e ci mettiamo all’opera, con l’aiuto del barbiere. A momenti andremo via, ma non sia mai detto che lo facciamo senza aver contribuito al riscaldamento. Sul palco – senza sindaci e autorità – s’alternano i comitati, gli esperti, i militanti, i produttori di vino e di olio. L’anno scorso, ci raccontano, gli amministratori locali hanno negato persino l’impianto di amplificazione. Così, quest’anno, è tutto autorganizzato. E gli amministratori possono continuare a parlarsi allo specchio. Le istanze rotolano sui cappelli. Da Bagnoli al Vulture. I compagni napoletani ci nominano dal palco. Noi sorridiamo e continuiamo ad attizzare il fuoco. Attorno al nostro impegno, ormai, c’è un pool di anziani. Mentre l’odore dei camini impregna giacche e giubbini. Ci sono momenti così. Che l’umanità prevale sull’interesse. Smontiamo le nostre cose, ritorniamo alle macchine. Non senza essere passati dal Biancosarti. Con la certezza di quanto questa battaglia, adesso, ci appartenga. Col bisogno di studiare e agire. Perché di maestri come Renzi non sappiamo cosa farcene.

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