Navi siriane: a rischio ecosistema del Mediterraneo
Dopo aver chiesto, e ottenuto, chiesto la garanzia dell’anonimato al quotidiano Usa “The Washington Times”, uno scienziato del Pentagono ha dichiarato: «Si è messo grande impegno nel piano di distruzione delle armi chimiche siriane. Si è cercato di valutare ogni possibile falla prima di dare il via. Quello che non si dice mai nelle dichiarazioni ufficiali è che, nonostante tutto, i rischi di un disastro ecologico sono molto alti». L’ex presidente dell’Unione dei chimici greci, Nikos Katsaros, è ancora più esplicito: «La distruzione delle armi chimiche siriane? Una bomba tossica estremamente pericolosa minaccia il Mediterraneo. Minaccia la salute pubblica e l’economia dei Paesi del Mediterraneo centrale. Sarei seriamente preoccupato anche se abitassi in Spagna o in Israele. Il Mediterraneo è un mare chiuso, non ha bisogno di essere contaminato ulteriormente».
Secondo le informazioni fornite dall’Opac, l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, dal ministero degli Esteri e da quello delle Infrastrutture, le sostanze chimiche trasportate dalla Siria («imballate e sigillate in modo da garantirne la totale sicurezza durante tutto il trasporto») arriveranno nel porto calabrese di Gioia Tauro a bordo di due cargo e due fregate battenti bandiere danese e norvegese. Cinquecentosessanta tonnellate di agenti chimici, che nel giro di quarantotto ore verranno imbarcati una parte a bordo della nave americana Cape Ray, e stivati in un recipiente di titanio, il resto su una nave da guerra britannica. Sulla Cape Ray sono state installate dal Pentagono delle apparecchiature mobili per la distruzione dei materiali mediante idrolisi. Una volta carica, la nave uscirà dalle acque territoriali italiane per trasferirsi in acque internazionali, nel tratto di mare tra Malta, Libia e Creta, «dove svolgerà le attività di distruzione». Processo che durerà tre mesi. I residui della distruzione saranno trasferiti a Munster, in Germania, perché possano essere convertiti in sostanze utilizzabili dall’industria.
A quanto pare, però, la realtà potrebbe essere molto distante dalla versione ufficiale.
Ne è certo il professor Evangelos Gidarakos, del Politecnico di Creta, il quale, come prima cosa contesta la quantità di sostanze da smaltire: «L’armamento chimico della Siria consiste di due parti. Esistono 1.250 tonnellate di armamenti principali come i gas sarin e i gas mostarda, e altre 1.230 tonnellate di sostanze precursori, che sono utilizzate per la fabbricazione delle armi vere e proprie. Queste sostanze, principalmente composti chimici di cloro e fluoro, sono di per sé altamente velenose e tossiche. Poi esiste una gamma di altre sostanze acquistate dalla Siria dopo l’embargo, per cui sono sia di provenienza sia di natura ignota. Anche prendendo per buone le 1.500 tonnellate ufficialmente dichiarate, non credo che tutto possa essere concluso in soli tre mesi. Ci vorrà probabilmente il triplo di questo tempo, sempre che non succedano degli spiacevoli imprevisti».
Poi c’è la questione tecnica dello smaltimento. La rivista “NewScientist” ha pubblicato un articolo nel quale si rivela l’esistenza di un laboratorio mobile per la neutralizzazione di armi chimiche, costruito a tempo di record dalla Edgewood Chemical Biological Center. «Fulcro dell’impianto è una tanica di titanio di oltre ottomila litri di capienza, in cui vengono pompati agenti come sarin e iprite, mescolati quindi con acqua, idrossido di sodio e candeggina, per essere poi riscaldati. Questo processo favorisce l’idrolisi dei composti, che sono scissi in frammenti più piccoli. I prodotti di questa idrolisi possono quindi essere smaltiti presso impianti commerciali per il trattamento di rifiuti pericolosi. L’efficienza è piuttosto alta».
Tutto a posto, dunque? «L’idrolisi è, certamente, una tecnica molto efficiente per rompere le molecole pericolose. Con l’idrolisi, la molecola viene “rotta” con acqua e idrossido di sodio per ridurla a sostanze meno tossiche. Ricordiamoci, però, che il Sarin non è l’unica arma ritenuta essere in mano ad Assad. Arme diverse potrebbero necessitare trattamenti diversi. Comunque, anche in questo caso servono gli impianti per farlo. Piccoli laboratori sono insufficienti per le quantità da smaltire. Le operazioni di neutralizzazione sono sempre rischiose, e bisogna procedere con cautela. Ci vuole tempo», ha spiegato Lorenzo Nannetti, membro di Wikistrat, network di analisti internazionali impegnato a svolgere simulazioni di geopolitica e relazioni internazionali per governi di vari Paesi.
«Sono molto scettico, e felice che l’operazione non si compia nelle acque americane. Non è mai stato fatto nulla di simile. Finora le armi chimiche sono sempre state stoccate a terra. Mai in mare. Non ci sono precedenti. Tutto quello che si sa è frutto di ipotesi, di stime. Stesso discorso vale per le armi da distruggere. Per esempio, non sappiamo se il sarin sia puro. Il sarin iracheno raramente era puro, era pieno di sostanze contaminanti. Sto cercando di dire che non sappiamo se le sostanze in questione sia adatte al metodo dell’idrolisi», ha dichiarato Raymond Zilinskas, direttore del Programma di non proliferazioni di armi chimiche e batteriologiche, professore al Monterey Institute of International Studies ed ex ispettore Onu in Iraq.
«Zilinksas ha ragione. Le probabilità che qualcosa vada storto sono molto alte. Oltre al fatto che non siamo ancora certi della reale composizione delle armi siriane», ha ribadito Richard M. Lloyd, della Tesla Laboratories Inc., l’azienda che ha avuto il compito di analizzare l’arsenale chimico siriano.
Riprova dell’incertezza dell’operazione viene dalla decisione degli specialisti dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, contattati in un primo momento dal Pentagono per assistere lo smaltimento. Questi si sono tirati indietro dopo aver chiesto ulteriori garanzie al ministero della Difesa Usa. Secondo il “Washington Times”, avrebbero preteso l’avvio delle operazioni non prima di giugno e non prima di aver effettuato test in mare delle apparecchiature. L’operazione si fa subito, e ai test nemmeno si è accennato. «I nostri laboratori mobili funzionano al 99,9 per cento», affermano alla Edgewood.
«E se qualcosa andasse storto? E se si verificasse un guasto nell’impianto durante il processo di “rottura”?», insiste Zilinskas.
«Se una tale neutralizzazione delle armi chimiche verrà effettuata tramite il processo di idrolisi, si può parlare di uno scenario da incubo. Si tratta di un metodo estremamente pericoloso, con conseguenze imprevedibili per l’ambiente mediterraneo e i popoli vicini», accusa Katsaros, che lavora anche per Democritos, il Cnr greco.
Katsaros azzarda anche un’ipotesi sullo scenario che potrebbe verificarsi: «Se qualcosa andrà storto, si verificherà la necrosi completa dell’ambiente interessato e l’inquinamento marino tra il mare Libico ed il mare di Creta. Il pesce sarà avvelenato dalla contaminazione, così come la popolazione che lo consumerà. Da notare inoltre che il punto del mare prescelto è all’incirca lo stesso usato per l’inabissamento di sostanze tossiche gestite in passato dalla mafia. Il mare Mediterraneo è stato scelto proprio perché chiuso. Negli oceani la contaminazione ci sarebbe stata lo stesso, ma la dissoluzione delle sostanze sarebbe stata agevolata dalla più grande quantità d’acqua. In un mare aperto però la possibilità di onde marine di grande altezza e quindi di incidenti è sostanzialmente maggiore».
Gli fa eco Gidarakos: «Queste sostanze chimiche sono miscele di sostanze pericolose e tossiche, che non sono in grado di essere inattivate in modo da non causare danni agli organismi viventi solo con questo metodo. Questa zona tra l’Adriatico e il Mediterraneo stata già trasformata dalla mafia italiana in un cimitero di prodotti chimici, facendo affondare, in un periodo di circa vent’anni circa trenta navi cariche di vari tipi di sostanze e rifiuti chimici».
Ma non è tutto. «L’idrolisi di tutto questo quantitativo pericoloso produrrà una terza componente tossica che sarà formata direttamente nelle acque marine. Perché l’idrolisi non è più un processo relativamente sicuro come nel passato. Oggi l’idrolisi produce anche degli scarti in forma liquida, cosa che non succedeva prima», aggiunge il professore del Politecnico di Creta. «Tutta questa storia ricorda molto un’operazione militare ed ha poco di scientifico», conclude.
Insomma, la Casa Bianca e Palazzo Chigi assicurano che tutto andrà per il meglio, snocciolando cifre e presentando rapporti scientifici. Molti scienziati, però, alcuni dei quali coinvolti in prima persona nell’operazione, sollevano dubbi e lanciano allarmi. Il rischio è alto: il futuro del Mediterraneo e del pesce sulle nostre tavole. Siamo proprio così sicuri di poterci fidare della parola del Pentagono?
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