Operaio contaminato dal plutonio a Casaccia: per i responsabili diventa garanzia di sicurezza.
Al centro nucleare della Casaccia alle porte di Roma un operaio è stato contaminato dal plutonio presente nel sito; a renderlo noto è stata l’Agenzia di stampa per l’energia e le infrastrutture (Ageei) lo scorso venerdì.
Il rimbalzo della notizia sulle principali testate nazionali se da una parte ha, come è giusto che sia, provocato un certo allarme nell’opinione pubblica, dall’altra ha innescato l’immediata corsa ai ripari dei vari attori del settore, in primis di Sogin, l’azienda che, incaricata del decommissioning del nucleare italiano, ha in gestione lo stesso centro della Casaccia.
In una nota, infatti, la stessa Sogin ha da subito parlato di un caso di «contaminazione interna» ed ha escluso la possibilità di contaminazione del territorio esterno all’impianto. A rassicurare tutti sull’accaduto ci ha pensato Giuseppe Zollino, docente di Tecnica ed Economia dell’Energia e di Impianti Nucleari presso l’Università degli Studi di Padova nonché responsabile Energia e Ambiente di Azione di Carlo Calenda, il quale presentato dagli organi di stampa con la confortante etichetta di “esperto del settore”, ha voluto rilanciare. Infatti, l’ “esperto” non si è limitato a minimizzare l’accaduto ma al contrario ha sfruttato, secondo una logica perversa, un incidente per tessere le lodi dei livelli di sicurezza che, a suo dire, caratterizzano il settore nucleare, arrivando a sostenere che «quanto accaduto è la dimostrazione dei controlli accuratissimi che hanno permesso di rilevare immediatamente questa anomalia, è una garanzia che i controlli, i sistemi di sicurezza funzionano». Lo stesso Zollino ha poi continuato sottolineando che gli incidenti capitano ovunque, che qualche mese fa ce ne fu uno in un impianto idroelettrico vicino a Bologna e lì gli effetti furono molto più gravi.
Insomma, il problema per uno come Zollino è silenziare eventuali timori sugli incidenti e anzi, limitarsi a verificare che le procedure di sicurezza fossero attive e funzionanti, in modo da poter dichiarare sulla base dei “numeri” che la filiera nucleare sarebbe la più sicura di tutte. Che un «esperto» come Zollino si spertichi in difesa del settore nucleare, d’altra parte, non dovrebbe stupire dal momento che quello che viene presentato dalla stampa sotto l’etichetta neutrale di «esperto del settore», fino a pochi anni fa è stato niente di meno che presidente di Sogin, ovvero la stessa azienda al centro del ciclone per l’incidente del centro della Casaccia. Un parere non proprio disinteressato.
A minimizzare ci ha poi pensato lo stesso Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica che dell’accaduto ha parlato nei termini di «evento anomalo», locuzione che vuol dire tutto e niente ma che bene esemplifica il tentativo da parte del Ministero di prendere tempo, in attesa che l’attenzione sull’accaduto scenda ed evitare così di alimentare lo scetticismo nei confronti di un settore che, come è sempre più chiaro, il governo vorrebbe rilanciare in grande stile.
Ad oggi, infatti, checché ne dica Sogin o il Ministro Fratin, si sa poco o nulla di quanto accaduto nel centro della Casaccia. L’unica certezza è che il 21 novembre scorso, un operaio di 59 anni è stato avvisato della sua radioattività a fine turno dal rilevatore. Non si sa se l’inalazione o l’ingestione del plutonio sia avvenuta durante le fasi di lavorazione del rifiuto radioattivo o durante le fasi di svestizione. Ciò che è certo è che l’azienda ha da subito cercato di tenere nascosta la notizia come testimonia la tardiva comunicazione dell’accaduto all’ Ispettorato nazionale sicurezza nucleare (Isin), informato dell’incidente solo quattro giorni più tardi e, il cui sopralluogo, è stato possibile solo una settimana dopo.
È altrettanto certo che nonostante le aziende incaricate della gestione del centro siano cambiate nel corso del tempo dal Cnen (Centro Nazionale Energia Nucleare) a Sogin passando per l’Enea, gli incidenti alla Casaccia sono rimasti una costante. Il centro di cui oggi Sogin si occupa – ad oltre trent’anni dal referendum del 1987 – della bonifica degli ambienti contaminati dal materiale radioattivo, nacque, infatti, nel 1968 per favorire l’attività di ricerca sulle tecnologie di produzione degli elementi di combustibile nucleare sotto l’egida dell’allora CNEN e già nel 1974 si verificò il primo incidente. Era l’8 maggio e lo scoppio di una delle apparecchiature preposte alla lavorazione del plutonio contaminò gravemente un lavoratore.
In quell’occasione a scongiurare conseguenze peggiori furono situazioni fortuite come il verificarsi dell’incidente durante la pausa pranzo, fatto che consentì agli altri lavoratori, in quel momento in mensa, di uscire indenni dall’incidente.
E, d’altra parte, ogni qualvolta capitano incidenti che coinvolgono il settore nucleare lo schema sembra essere sempre lo stesso: minimizzare quanto avvenuto ancora prima di aver capito cosa materialmente sia successo, scaricare la responsabilità sui singoli lavoratori, come se in questo caso un’eventuale contaminazione dell’operaio in fase di svestizione assolvesse l’azienda dall’accaduto, tirare in ballo gli incidenti che occorrono in altre produzioni, energetiche e non, per rassicurare circa la sicurezza del comparto nucleare sul quale graverebbero standard in materia molto più rigidi. Su quest’ultimo aspetto è bene soffermarsi in chiusura ricordando alcuni elementi che per quanto forse scontati è bene tenere a mente quando si parla di nucleare.
Il primo è che, nonostante la retorica in merito, il rischio zero per quanto concerne la produzione nucleare non esiste, come testimonia la ratio alla base dei piani di emergenza e di evacuazione che vengono predisposti nelle zone limitrofe alle centrali atomiche. Tali piani si basano infatti sulla valutazione della soglia massima di radiazione tollerabile dall’organismo e, tuttavia, è interessante notare come la stessa soglia possa variare a seconda dei casi e delle esigenze, ammettendo dei picchi nelle zone limitrofe ad una centrale. Il piano di evacuazione della centrale di Caorso – attiva dal 1981 al 1990 – ad esempio imponeva l’evacuazione della zona solo in seguito ad una dispersione di radioattività pari 250 mRem, ovvero dieci volte superiore alla dose che al tempo l’Enel considerava tollerabile per l’uomo. L’innalzamento della soglia di sicurezza di dieci volte veniva giustificato attraverso un calcolo statistico che raffrontava l’incremento dei decessi generati dalle radiazioni, con i costi elevatissimi e le morti generate dal piano di evacuazione stesso: due morti su mille abitanti causati dalle radiazioni risultavano inferiori a quelli per infarti e incidenti stradali che si sarebbero prospettati nel caso di una evacuazione completa della zona.
In secondo luogo, a sentire personaggi come Zollino, che di fronte alla contaminazione di un lavoratore in un centro nucleare, sono pronti a sciorinare le cifre dei morti provocate da altri settori produttivi – come l’incidente alla centrale idroelettrica di Suviana costata la vita a sette persone – non può non tornare alla mente il vecchio detto del mulo che dà del cornuto all’asino, laddove invece di interrogarsi sulla validità dell’utilizzo che il capitale fa di scienza e tecnologia, le morti riconducibili ad altri cicli produttivi vengono strumentalizzate per supportare la sicurezza del nucleare, dal momento che, come ebbe a dire Felice Ippolito – tra i padri fondatori dello sviluppo atomico italiano del secondo dopo guerra – commentando l’incidente di Three Miles Island, lo stesso non produce morti immediate, potendo al massimo causare morti differite.
Insomma, a sentire gli esperti del settore se il tasso di cancro e leucemia aumenterà non c’è da formalizzarsi, basta rilassarsi pensando che la tecnologia ha già prodotto eccidi incomparabilmente più massificati.
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