Impressioni da New York (pt.2)
#2 Spazi e politica
Avevo accennato nella prima corrispondenza allo spazio e alla politica. Temi inevitabilmente ampi e che attraverseranno anche altri momenti di questi scritti. Riporto dunque solo alcune brevi annotazioni. Partendo dal raccontare un episodio aneddotico ma significativo. Un gruppo di anziani coreani è infatti protagonista da settimane di un caso che è arrivato sulle pagine del New York Times. Queste persone hanno da tempo l’abitudine di trascorrere le proprie giornate in un Mc Donald’s a Flushing, nel Queens. Chiacchierano seduti ai tavolini sorseggiando l’ottimo caffè da un dollaro senza acquistare altro, perché preferiscono il cibo coreano a quello del fast food. I proprietari alla lunga hanno deciso che la cosa comprometteva i loro affari, e nelle ultime settimane hanno iniziato a cacciarli, ricorrendo anche alla polizia. Questo ha scatenato un significativo dibatto. Tra l’altro pare ci sia un precedente simile nel Michigan, coinvolgente anche lì la comunità coreana, che aveva portato Mc Donald’s a regolamentare gli orari nei quali era possibile stanziare all’interno, che escludevano gli orari di pranzo e cena nei quali si poteva sedere per un massimo di venti minuti. Cosa si può leggere a partire da quella che pare esclusivamente una curiosa vicenda da cronaca locale? Innanzitutto un discorso sullo spazio pubblico.
Se si passeggia per le strade di moltissime città arabe, penso ad esempio a Tunisi, si nota subito come i tavoli fuori dai frequenti “bar” collocati lungo la strada fungano da luoghi di ritrovo, nei quali persone (per lo più uomini) di tutte le età stazionano a chiacchierare, leggere il giornale o giocare a carte o simili, fumando mentre sorseggiano thé o caffè. Una situazione simile si incontra in moltissimi posti anche sulla sponda opposta del Mediterraneo. Più si sale verso Nord, più questa funzione sociale viene esperita dai dehors di locali. Potremmo prendere Parigi come paradigma. Dunque si entra in una dimensione tendenzialmente più regolamentata e dove il privato ha una maggiore importanza.
Le piazze hanno storicamente funzionato come secondo punto di incontro pubblico. Tuttavia negli ultimi anni una crescente regolamentazione securitaria di quei luoghi le ha rese sempre meno “liberamente fruibili” in molte parti del mondo. A New York tutto ciò pare risultare tutto sommato estraneo. Da un lato la “piazza” qui si può ritrovare nei grandi e diffusi parchi, che tuttavia proprio per la loro estensività difficilmente consentono una significativa aggregazione spaziale, che si nota soprattutto nelle aree per i cani, vere zone di incontro. I protagonisti di questi luoghi sono spesso i solitari corridori, che anche nel gelo e con distese di neve attraversano a frotte i parchi, spesso con musica nelle cuffie. La piazza d’altra parte è una cosa poco americana. Qui infatti l’idea della proiezione sullo spazio di una griglia geometrica – ideata nella Firenze tardo medioevale e per la prima volta sperimentata a Ferrara, nel quartiere che tutt’ora porta il nome di Arianuova (con allusione chiara all’aria che circolava e scorreva nelle vie rette che dalla città andavano verso la campagna, rompendo con la tradizione tendenzialmente circolare o comunque conchiusa della città) – ha trovato una fenomenale ed estrema applicazione nell’espandersi del tessuto urbano. E in una griglia l’incrocio fra gli assi perpendicolari e paralleli forma incroci, non piazze. Non a caso le poche piazze di NY sono a Manhattan, e pressoché tutte sono “famose”. Ma basta dare un’occhiata a questa webcam sempre in funzione su Times Square:
http://www.earthcam.com/usa/newyork/timessquare/
per rendersi conto di come il concetto di piazza abbia veramente poco a che spartire con quello in Europa.
Questa lunga perifrasi o divagazione per dire che, per paradossale che possa apparire, una sorta di spazio pubblico a New York è rappresentato proprio dai locali delle grandi catene di ristorazione. Starbucks è assolutamente emblematico al riguardo. Ce ne sono centinaia (quasi duecento solo a Manhattan) sparsi per tutta la metropoli. Aperti fino alle 23, sono sempre pieni di persone che passano anche ore all’interno. Qui sì che basta consumare un caffè per potersi sedere ai tavolini. Tuttavia la maggior parte delle persone è sola con il proprio computer ad usare la wifi gratuita del posto. Non vi è dunque una grande socialità… E gli avventori sono per la maggior parte di “classe media”. Le persone più ricche scelgono i caffè italiani o francesi per trascorrere il loro tempo. Mentre le persone più povere, come si denota dall’apertura di questo scritto, si orientano maggiormente sui fast food. C’è dunque una linea di classe che spesso attraversa la possibilità di accesso a questi luoghi “pubblici”, queste piccole piazze del “tipo metropolitano” individualizzato di questa metropoli capitalistica contemporanea.
Un secondo elemento, questo più simile all’Europa e che richiama la relazione tra spazio e politica, è quello delle geografie della città. Qui le barriere di classe sono estremamente evidenti. Basta andare su Craiglist (http://newyork.craigslist.org), un sito dove si trova un po’ di tutto, e dare un’occhiata veloce al prezzo delle stanze in affitto. Risulta chiaro come il costo degli affitti delimiti le zone della città. Se è pur vero che centro e periferia sono due polarità in crisi nel mondo globale, e che negli States non possono essere immaginati come in Europa, usando questa mappa in realtà è piuttosto semplice figurarseli. A Manhattan, a meno che non si sia pieni di soldi, è pressoché proibitivo anche solo immaginare di poter cercare una stanza. Difficilmente si trova qualcosa sotto i mille dollari al mese, e spesso per situazioni al limite della sopportabilità. Più ci si allontana da lì più i costi scendono per soglie, a cerchi quasi concentrici rispetto all’isola più ricca del mondo. Ciò non toglie che anche all’interno di queste aree esistano un’infinità di zone differenti. Blocco dopo blocco, isolato dopo isolato, ci si immerge in contesti estremamente differenziati. Esistono dunque enclaves di povertà anche vicino alle zone più abbienti. Ma comunque nulla a che vedere con le favelas sudamericane o con ad esempio Dubai, dove è possibile che dalla cima di un grattacielo di importanti uffici si possano vedere in basso distese baraccopoli.
Ultimo flash, del tutto contemporaneo e peculiare, su questo tema degli spazi, meno legato ad un discorso sulle classi e più alla politica mainstream. Sono arrivato a New York nel giorno in cui Obama faceva il “discorso sullo stato della nazione”. Ma non è questo il discorso del presidente che mi ha colpito. Mi ha infatti fatto molto più riflettere un video di qualche giorno successivo, al quale sono arrivato per l’incessante pubblicità che mi compariva vagando su Internet. E’ un video, che si può vedere qui dal canale ufficiale della Casa Bianca:
http://www.youtube.com/watch?v=mRBT4JtmrMY
nel quale Google+ fornisce il supporto affinché alcuni cittadini possano rivolgere in diretta delle domande al presidente. Il video è interessante per vari motivi, in quanto in mezz’ora riesce a dare uno spaccato veramente suggestivo della realtà americana: per come essa viene geograficamente suddivisa; per il tipo di persone che pongono le domande; per il tipo di medium usato; per il rapporto tra multinazionali private (come Google) e politica pubblica; per il tipo di risposte che Obama dà ad ampio spettro su molte questioni: dalla politica estera all’economia. E’ veramente un piccolo condensato dell’ideologia democrats degli anni Dieci. Sotto l’intramontabile ombrello del “nazionalismo” (altro argomento sul quale tornerò, anch’esso assolutamente imparagonabile a ciò che il concetto significa in Europa), che lo porta a figurare un “nuovo secolo americano”, il primo presidente nero parla di Internet libero, aumento dei salari minimi (“perché i dipendenti sono più felici e aumenta la produttività”), necessità che a tutti sia data un’opportunità, gioco su “Washington” come posto in cui i politici creano sempre problemi e al contempo necessità di politiche “sociali” ecc… Tutto chiaramente da leggersi sostanzialmente come misure utili alla crescita ed alla competitività internazionale, vere fonti di legittimazione dei governi neoliberali di tutto il mondo. Ad ogni modo, la domanda finale è un vero tripudio di americanità: un ciccione con una maglietta che promuove un sito per l’energia green e le braccia tatuate chiede al presidente, da uomo a uomo, se è felice. Questo consente a Obama di lanciarsi in un elogio della famiglia, vero cuore ideologico, quale unità di base, della società Usa. Insomma, una visione utile per inserirsi negli Stati Uniti contemporanei.
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