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Palestina, dove si uccide anche la cultura

Come archeologi impegnati nella tutela e valorizzazione del patrimonio culturale del nostro Paese, sentiamo l’esigenza e il dovere di esprimerci su quanto accade nella Striscia di Gaza e nel resto della Palestina.

di Archeologi del pubblico impiego, da Volere la Luna

Se la priorità va senz’altro data all’emergenza umanitaria, ci sembra tuttavia necessario richiamare l’obbligo per una forza occupante di rispettare il diritto internazionale anche sul piano del patrimonio culturale. Al fianco della strage sistematica di civili e della creazione di un immenso campo di prigionia, che sta determinando sotto i nostri occhi un’immane carestia, si assiste infatti a una altrettanto sistematica distruzione del patrimonio storico e culturaleArchivi, biblioteche, monumenti architettonici, artistici e archeologici sono oggetto di una distruzione deliberata e diffusa.

Nonostante le difficoltà di verifica sul terreno, questa distruzione è comunque autorevolmente documentata. Secondo un rapporto congiunto della Banca mondiale, dell’Unione europea e delle Nazioni Unite (Gaza and West Bank. Interim rapid damage and needs assessments, p. 31), nel febbraio 2025 circa il 53% del ricco patrimonio culturale di Gaza – importante porto e crocevia tra Africa e Asia almeno a partire dal II millennio a.C. – risultava distrutto o fortemente danneggiato. Tra questi siti rientrano, oltre a moschee e chiese tra le più antiche dell’area, l’antico porto di Anthedon (con edifici che risalgono all’VIII sec. a.C), il Pasha Palace Museum (monumento del XIII secolo che ospitava un museo archeologico, totalmente distrutto), il Museo Al Mat’haf, il primo museo archeologico di Gaza, saccheggiato, incendiato e demolito. Una più recente corrispondenza pubblicata su Nature (5 agosto 2025) parla di 226 su 316 siti archeologici presenti nei territori palestinesi distrutti negli ultimi due anni, denunciando anche la crescita del commercio illegale di beni archeologici dell’area.

Un rapporto analitico di una commissione di indagine indipendente delle Nazioni Unite, approvato nel luglio 2025 dallo Human Rights Council (Report of the Independent International Commission of Inquiry on the Occupied Palestinian Territory, including East Jerusalem, and Israel), mostra in modo chiaro che non si tratta di effetti collaterali: se nel 71% dei casi i danni sono determinati dai bombardamenti, nel restante 29% sono i bulldozer o i carri armati a distruggere siti culturali (è il caso, tra gli altri, del Museo Al Mat’haf). L’intenzionalità delle distruzioni è insomma palese e appare come parte organica di un più ampio progetto di distruzione e sradicamento della popolazione palestinese, della sua identità collettiva e della sua memoria storica.

In questo progetto l’archeologia ha la sua parte, ben oltre le distruzioni documentate a Gaza. Citiamo un solo caso, sempre dal rapporto delle Nazioni Unite e relativo alla Cisgiordania, quello del sito archeologico di Sebastiya, la capitale del biblico regno di Israele nell’VIII-VII secolo a.C., che è un sito pluristratificato con evidenze anche ellenistiche, romane, bizantine, crociate, ottomane e islamiche. Insomma, una straordinaria testimonianza delle complesse vicende storiche di questa terra. Nel maggio 2023 (prima dunque del tragico 7 ottobre) il Governo israeliano ha stanziato quasi nove milioni di euro per avviare nuovi scavi e un progetto di valorizzazione esplicitamente centrato sulla sola fase ebraica, marginalizzando le altre fasi storiche ed escludendo i palestinesi che vi avevano lavorato fino a quel momento: un episodio su cui anche la stampa italiana ha richiamato l’attenzione (Venerdì di Repubblica, 7 luglio 2025). Il caso di Sebastiya non è isolato. In molti altri casi l’iniziativa di scavo e valorizzazione di siti archeologici è lasciata addirittura nelle mani dei coloni israeliani nella Cisgiordania occupata. Che non si tratti di iniziative occasionali è mostrato dalla proposta di legge, attualmente in discussione presso il Parlamento israeliano, per estendere la giurisdizione dell’Israel Antiquities Authority (IAA) su tutta la Cisgiordania: una forma di annessione che mostra la strumentalizzazione del patrimonio archeologico, usato per dimostrare presunti diritti ancestrali sulla terra.

Come archeologi riteniamo opportuno richiamare con forza l’attenzione anche su questi aspetti, condannando l’uso politico dell’archeologia e la deliberata distruzione del patrimonio culturale palestinese come parte organica del progetto di sterminio di un intero popolo e in piena violazione delle convenzioni internazionali (tra le altre, Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, 1948; Convenzione di Ginevra, 1949; Convenzione per la protezione dei Beni Culturali in caso di conflitto armato, 1954). La stessa Corte penale internazionale ha sottolineato che quelli perpetrati sul patrimonio culturale palestinese sono crimini di guerra.

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