Saramago, Lisbona e il pallone
Il 16 novembre 1922 nasceva nel piccolo comune di Azinhaga, facente parte del distretto del Portogallo centrale di Santarém, lo scrittore José de Sousa Saramago. Autore di importanti libri come Cecità e Il Vangelo secondo Gesù Cristo, nel 1998 venne insignito del premio Nobel per la letteratura.
di Roberto Consiglio da Sport Popolare
Saramago, in molte delle sue opere, ha voluto mettere in luce un forte approccio filosofico sulla natura umana. Questo tipo di visione ha però interessato anche altri ambiti della vita dello scrittore lusitano.
Lo scrittore trascorse parte della sua vita nella capitale portoghese Lisbona, città che vanta una delle rivalità calcistica più accese. A sfidarsi nel “Derby di Lisboa”, dal lontano dicembre del 1907, sono i biancorossi del Benfica e i biancoverdi dello Sporting Lisbona.
Saramago, riguardo a quale dei due team calcistici sostenere, non ebbe molti dubbi e fu dall’inizio un fervente sostenitore del Benfica. Il team calcistico della capitale lusitana venne fondato il 28 febbraio 1904.
Le Aguias (“aquile” in portoghese) erano in realtà il prodotto della fusione di due squadre già esistenti. A dar vita a quello che, ancora oggi, è il team più vincente del campionato lusitano, lo Sport Lisboa, legato a una farmacia nel quartiere di Belém, e lo Sport Clube de Benfica, la cui attività principale era il ciclismo – per questo motivo tuttora nello stemma della squadra c’è una ruota.
Nel 1925 il Benfica cominciò a giocare i suoi incontri casalinghi nell’Estadio Das Amoreiras. Proprio in questo impianto, dall’età di 8 anni, cominciò a seguire gli incontri delle aquile un giovane José Saramago.
L’amore per le Aquile non fu eterno. Nel corso del tempo, infatti, lo scrittore si allontanò dal mondo del pallone. Questo distacco fu dovuto a una causa ben chiara. Secondo Saramago, il pallone, stava perdendo con il tempo la sua essenza popolare originaria per trasformarsi in puro business.
Molto forte restò, invece, il legame tra la nazionale lusitana e il premio Nobel. Celebre è un suo discorso a seguito di una sconfitta con Luis Figo, che indossò la casacca del Portogallo dal 1991 al 2006 per un totale di 32 gol in 127 partite.
Saramago in quell’occasione affermò: “La sconfitta ha qualcosa di positivo, non è definitiva. Anche la vittoria ha qualcosa di negativo: non è definitiva”. È proprio questo punto che rende, agli occhi dello scrittore, il calcio un vero e proprio fenomeno sociale.
A Saramago piaceva vedere ciò che accadeva intorno a lui durante una partita di calcio e non si risparmiava delle vere e proprie riflessioni sulla società.
I tifosi, ad esempio, erano descritti come degli eroi sugli spalti. Erano anche un perfetto “elogio alla cecità” visto che compivano dei rituali sacri, ad esempio il segno della croce, pur di veder segnare alla loro squadra il gol decisivo in un match.
Tale ricerca del sacro avveniva però nel luogo che, sotto molteplici punti di vista, può essere descritto come quello profano per eccellenza: lo stadio. La forza del gesto però, metteva in secondo piano questa forte contraddizione di base.
Per questo motivo, secondo lo scrittore, il più delle volte questi riti non portavano a un cambiamento in positivo della partita.
Più e più volte a Saramago venne chiesto il perché del suo convinto ateismo. Il premio Nobel, una volta, rispose: “Cerco un segno di Dio tutti i giorni, ma non lo trovo”.
Come se anche questi riti calcistici gli avessero quasi fatto cambiare idea riguardo il suo non credere in Dio. Ma poi si capisce che non sempre è così facile trovare risposte.
E poi ci vengono a dire che anche il pallone non è una religione in sé per sé…
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