Cosa vuol dire un’università libera?
In TV e sui giornali si è scatenata la canea mediatica nei confronti degli studenti e delle studentesse universitarie che richiedono la fine degli accordi di ricerca militari o di dual use con le università israeliane.
Le argomentazioni che commentatori e giornalisti prezzolati utilizzano sono ridicole per chiunque conosca il contesto delle università italiane. Si dice che le università sono spazi di confronto e di scambio, dei luoghi dove le idee si contaminano e che dunque gli accordi con Israele non solo sono necessari, ma fondamentali per nutrire l’opposizione a Netanyahu ed il suo governo. Tutto molto bello ed in teoria anche sensato. Peccato che…
Peccato che i rapporti che vengono contestati non sono quelli del libero scambio di saperi tra università alla pari, ma sono accordi tra governi e a volte tra governi ed imprese private per lo sviluppo di tecnologie militari o dual use, cioè tecnologie all’apparenza di utilità civile, ma che possono essere usate ampiamente in ambito militare.
Peccato che in questi decenni di trasformazione dell’università molti ricercatori e ricercatrici dipendono da sovvenzioni private per portare avanti le proprie ricerche. E’ evidente che i privati indirizzano la ricerca secondo i propri interessi, cioè il profitto. Ed oggi l’industria della guerra è particolarmente fiorente.
In questi mesi di militarizzazione dell’Unione Europea sono decine i giovani ricercatori e le giovani ricercatrici precari (specialmente nel campo delle cosiddette scienze dure) che di colpo in bianco hanno visto cambiare dall’alto l’oggetto delle loro ricerche, per trovarsi di fronte ad una scelta assurda: continuare a lavorare per lo sviluppo di tecnologie militari o mollare la ricerca trovandosi magari a casa senza reddito?
Non ci vuole chissà quale intelletto per capire che se le università dipendono dalle sovvenzioni dei privati, dalle indicazioni dei governi, dalle esigenze strategiche dell’Unione Europea quella del libero confronto tra opinioni diverse è una bufala da rifilare al grande pubblico per nutrire l’odio nei confronti di chi esprime un punto di vista di puro buon senso: non contribuire ad accrescere la macchina del genocidio del popolo palestinese.
Avremo delle università libere quando gli interessi privati verranno messi alla porta, quando si avrà piena coscienza dell’avvitamento nefasto tra scienza e capitalismo, quando la ricerca avrà come scopo unico il bene comune. Le destre ed alcuni commentatori avrebbero piacere a cancellare anche quel minimo di autonomia che permette l’espressione del dissenso all’interno del contesto accademico, ecco dunque da dove viene la canea mediatica. Il loro obiettivo non è garantire libertà, ma cancellarne altre ad oggi già piuttosto precarie. Chi genuinamente e con buone intenzioni si allinea a questo spartito dovrebbe porsi qualche domanda in più.
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