Il carcere significa morte.
Un ragazzo di appena 25 anni si è tolto la vita nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino, ieri, soffocandosi con un sacchetto di plastica. Dall’inizio dell’anno sono 51 i suicidi avvenuti nelle carceri in Italia. La ministra Cartabia esordisce con le solite dichiarazioni di rammarico, eppure sono tante le questioni che dovrebbero essere inserite all’ordine del giorno, prima fra tutte l’assurdità di un sistema basato sulla pena e sulla privazione della libertà.
Intanto, i dati a disposizione sulle condizioni carcerarie sono inquietanti. Per quanto riguarda il sovraffollamento in media su 100 posti disponibili sono detenute 115 persone, questo significa che all’interno di una cella ci sono il doppio delle persone previste. Il famoso sovraffollamento, di cui quando si parla di carcere nei livelli istituzionali ne diventa il cavallo di battaglia principale – perché fa fine ma non impegna – è dato, tra le altre cose, dal fatto che in carcere vi siano migliaia di detenuti che stanno aspettando il primo grado di giudizio. Questo significa che le misure cautelari in carcere vengano snocciolate come caramelle, indipendentemente dai reati, indipendentemente dal percorso di ciascuno, indipendentemente dall’età e dall’effettivo rischio di reiterazione del reato. Su 55 mila detenuti in Italia, oltre 15 mila sono in carcere senza una condanna definitiva, 8 mila attendono la sentenza in primo grado. Va di pari passo a questa questione l’aspetto delle condizioni psicologiche e sanitarie, infatti, il supporto psicologico in carcere è inesistente ma i dati ufficiali riportano che 1 detenuto su 10 ha una diagnosi psichiatrica grave e 1 su 4 è tossicodipendente. Sulle condizioni carcerarie i detenuti del blocco B del carcere Lorusso e Cutugno di Torino hanno stilato una piattaforma consegnata a Joli Ghibaudi dell’Associazione Antigone e ai consiglieri regionali Francesca Frediani e Marco Grimaldi perché i problemi reali di chi vive quelle condizioni vengano presi in considerazione seriamente, a partire dalla voce di chi è costretto a viverli (Piattaforma rivendicativa dei detenuti del Carcere Lorusso e Cutugno di Torino.).
Soltanto qualche giorno fa a Verona una ragazza di 27 anni si è tolta la vita in carcere, una donna, si apprende dai giornali, con dipendenze e con un bisogno di supporto psicologico disatteso, in quanto il sistema giudiziario italiano aveva previsto per lei la detenzione in carcere. Questo è reso possibile dal fatto che il carcere, nel nostro sistema, assuma valore “rieducativo”, soprattutto quando si tratta di giovani e giovanissimi. I giornali riportano le parole del giudice di sorveglianza di questa ragazza, il quale ha avuto il coraggio di scrivere una lettera per il suo funerale, in cui si sottolineava il fatto che il carcere non sia un luogo adatto “alle donne” e che davanti a questa tragedia il sistema abbia fallito.
Qui non si tratta di fallimento. Qui si tratta di una politica e di un sistema cechi e sordi. Si tratta di una sistematica incapacità di sguardo a lungo termine e di un totale disinteresse da parte delle istituzioni di affrontare, da un lato il funzionamento della giustizia e, dall’altro, il sistema punitivo e carcerario nello specifico. Il referendum di qualche mese fa è emblematico del posizionamento della politica nei confronti di questi temi. Parlare di giustizia garantista e di tutela della magistratura oggi diventa oltre che anacronistico una vera e propria scorciatoia. È evidente, infatti, il trattamento riservato ai militanti e agli attivisti politici a livello italiano, con alcune punte di spicco in cui emergono situazioni di recrudescenza senza precedenti come nel caso torinese, ma esso non si limita a questa composizione. Il fatto che all’interno delle carceri italiane siano detenuti e detenute una percentuale importantissima di giovani è qualcosa che non dovrebbe essere considerato accettabile per l’intera società civile. Il fatto che all’interno delle carceri si scontino giorni, mesi, anni prima ancora di aver affrontato un processo sulla base di misure cautelari dovrebbe essere considerata una lesione grave delle libertà personali da parte di tutta la società. Il fatto che il carcere venga utilizzato come sostitutivo a percorsi di supporto psicologico, formativi, sopperendo a una drammatica mancanza di servizi nell’ambito del terzo settore è indicativo di quali siano le priorità del sistema politico di questo paese.
La forte repressione di questi ultimi tempi nei confronti di giovani che hanno scelto di abbracciare percorsi di formazione politica all’interno dei movimenti è indicativa di una scelta politica di spezzare le gambe preventivamente, seguendo un programma di mera punizione. Basti pensare alla folle dinamica instaurata nei confronti degli attivisti di Extinction Rebellion Torino ( Nuovi fogli di via agli attivisti di Extinction Rebellion. “Abbiamo perso il lavoro, chi ci ripagherà?”) che, a seguito di un’iniziativa per sensibilizzare sul cambiamento climatico di fronte alla Regione Piemonte, hanno ricevuto decine di fogli di via dalla città in cui la maggior parte di loro studia e vive. Un atto dimostrativo da un lato ma, dall’altro, sintomo di un approccio che vuole spegnere sul nascere qualsiasi forma di autonomia. Questo approccio è lo stesso che viene utilizzato nei confronti delle espressioni e degli sfoghi di rabbia e di pretesa da parte dei giovani considerati “marginalizzati” nella società. I daspo urbani, le cariche della polizia su giovani che si erano dati appuntamento per una festa in spiaggia, i controlli sistematici, le punizioni esemplari, sono tutte pedine che si muovono all’interno di uno stesso gioco. Un gioco che mostra debolezza da parte delle istituzioni che dovrebbero affrontare problemi profondi e radicati nella composizione giovanile e che si approcciano ad essa con il bastone, dimostrando totale delega lasciando campo libero alla polizia politica e agli apparati repressivi di gestire la questione.
Se da un lato ci si può stupire della violenza della polizia e degli apparati a lei connessi in Italia, nel leggere questi fenomeni è importante sottolineare la forza e le spinte che si avvertono in direzione contraria, ossia la palpabile volontà da parte dei giovani di questo paese di non essere considerati invisibili e di indicare le responsabilità di una condizione giovanile sempre più povera e messa ai margini, in qualsiasi forma vengano espresse. Il carcere in questo senso diventa centrale, lo diventa nel momento in cui ragazzi di vent’anni sono costretti a confrontarvici come un fatto che in qualche modo dev’essere normalizzato all’interno di una quotidianità che, per i loro coetanei di altre estrazioni sociali e di altre epoche, sarebbe fatta di scuola, compiti, desideri, sogni e aspirazioni. Lo diventa per chiunque si confronti con una realtà insoddisfacente e violenta nel momento in cui il carcere venga proposto come unica offerta rieducativa. Oggi, ragazzi di vent’anni sono costretti ad andare a trovare i loro coetanei in carcere mentre i loro compagni svolgono gli esami di maturità. Oggi ragazzi di vent’anni non vedono prospettive praticabili di fronte a sé e la risposta a comportamenti di rifiuto o agli espedienti messi in campo per sopravvivere diventa la privazione della libertà. Il fatto che la politica permetta che la gestione delle richieste e delle rivendicazioni della parte sana della società sia appaltata a polizia, giudici e digos, dimostra la pochezza e la cecità di chi si trova a scaldare le poltrone, di qualsiasi colore e a qualsiasi livello esse siano. Che sia questo il trattamento riservato ai giovani oggi dovrebbe far riflettere e far prendere posizioni chiare da parte di tutta quella fascia di società che si considera ancora attenta ai diritti inalienabili delle persone. Che altri giovani muoiano di carcere non è accettabile per una società che si considera democratica, allora che si scelga da che parte stare.
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