Per un nuovo movimento contro la guerra
Aspettando la manifestazione di oggi, per i beni comuni e contro la guerra.
Mentre i bombardamenti umanitari continuano emerge via via un dato importante che non può non essere il punto di partenza del che fare contro la guerra in corso. L’intervento umanitario contro la Libia non ha ingannato nessuno. Non le piazze insorgenti della Primavera araba che hanno costretto le lingue biforcute della reazionaria Lega Araba a tornare un poco sui propri passi. Non i “paesi emergenti” che – a ragione, e con l’aggiunta di Berlino – intravedono nella prima guerra tutta di Obama il segnale di una rinata tentazione U.S. a fronte di una crisi globale irrisolta. E neanche gran parte della gente comune in Occidente, il cui sentire è assai differente dai tempi della guerra per il Kosovo allorchè la marcia unipolarista clintoniana sembrava senza ostacoli dentro la fase ascendente della finanziarizzazione.
Con questo non siamo certo alla vigilia di un rinato no war. Del resto, la situazione da allora è decisamente mutata. Per dirlo in una battuta, la globalizzazione nonostante la crisi non recede affatto ma al tempo stesso si sta mostrando come smottamento profondo e strutturale dei meccanismi di riproduzione della vita sociale complessiva (prima la crisi finanziaria, oggi Fukushima e la guerra). Non basta, come nel 2003, cercare di rendere più giusta la globalizzazione lottando contro un’amministrazione statunitense criminale. I nodi qui sono più profondi, la lotta alla guerra non potrà evitarli e il significato di cosa è pace acquisisce tratti diversi, più radicali…
Comunque sia, ad oggi non solo la coalizione dei volenterosi – reminescenza bushiana non casuale – si è mostrata fin dal primo giorno litigiosa e palesemente divisa su interessi tutt’altro che ideali, ma lo stesso mandato Onu ha perso di credibilità soprattutto nell’opinione araba a misura che si è rivelato un lasciapassare per massicci bombardamenti (significativa la contestazione al Cairo contro il segretario generale dell’Onu da parte dei ragazzi del 25 gennaio).
Non è però sufficiente limitarsi a questa constatazione. Altrettanto importante ai fini di una mobilitazione è mettere in chiaro che il nesso crisi-guerra ritorna come reazione alla prima fase della sollevazione araba. Reazione come risposta di poteri voraci ma in affanno e come controrivoluzione… preventiva ai possibili passaggi di radicalizzazione di un moto ampio e profondo che è in pieno svolgimento. Le bombe su Tripoli fanno il paio con l’appoggio di Washington all’asse militari-fratelli musulmani concretizzatosi nel referendum costituzionale egiziano di pochi giorni fa a sancire la “transizione ordinata” auspicata dall’amministrazione Obama. Fanno il paio con l’avallo statunitense alla repressione dei moti in Bahrein, dopo l’ingresso di truppe saudite nel paese che ospita la base della V flotta, con il via libera a nuovi raid israeliani, con la situazione in Yemen e altro ancora.
È da questa visuale – rovesciando la narrazione occidentale “democrazia”/tirannide o pro/contro Gheddafi – che possiamo sfuggire alla trappola-ricatto del dispositivo Onu “a protezione dei civili” sbandierato dall’”onesto” Napolitano e dalla macchietta
Berluska, e all’ipocrita giustificazione dell’intervento di guerra da parte di chi voleva mandare i poliziotti francesi contro le piazze tunisine, come S/Narkozy, o si muove in Medio Oriente con il double standard di sempre rispetto ai governi da sostenere o disarcionare e, ancor più cinicamente, ai morti buoni o cattivi come Obama/O-bomb. Sono i movimenti che nulla hanno da farsi perdonare rispetto a certi indifendibili personaggi a poter costruire una propria autonoma posizione. Non è facile, certo – qui ritorna il ricordo della vicenda kosovara – in quanto la strategia occidentale sta cercando di rimettere piede nell’area utilizzando come varco non solo l’occasione offerta dalla repressione gheddafiana (e dalla presenza in loco di personale di ricambio già messosi a disposizione) ma proprio le istanze detournate in senso reazionario delle stesse insorgenze arabe.
Ma neanche impossibile se riusciamo a ricollegarci con il senso profondo di queste istanze che è quello di rimettere in discussione un ordine globale sempre più ingiusto, incerto e onnivoro che sta scaricando i costi della crisi sui soliti noti, senza alcuna ricetta alternativa. E se dal mondo arabo salisse ad “aiutarci” la protesta delle piazze contro i bombardamenti. La manifestazione di sabato a Roma sarà un buon test in questo senso.
Quel che è certo, per ora, è che la missione libica non è finita qui. Già si parla di intervento di terra. Le armate occidentali potrebbero avviarsi verso l’impantanamento o, per evitarlo, spaccare in due il paese, o ridurlo ad una situazione tipo Somalia. In ogni caso, vogliono collocarsi ai due fianchi dell’insorgenza araba per condizionarla e in prospettiva soffocarla. Impedirlo senza se e senza ma è l’unico, vero “aiuto” che – al di fuori di orientalismi di raccatto – possiamo dare da qui. Su tutto il resto possiamo e dobbiamo discutere. Ma avendo individuato il nostro battleground.
24 marzo ’11
Redazione Infoaut
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