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Sul 15 ottobre

L’indignazione di mezzo milione di persone in Piazza della Repubblica e la rabbia di migliaia di giovani in Piazza San Giovanni restituiscono i fotogrammi su cui crediamo vada costruita l’eredità della prima grande manifestazione dell’autunno dell’austerity e della crisi generalizzata del sistema istituzionale ed economico italiano. La dimensione di massa dell’opposizione alle misure del governo e della BCE, che si inseriscono in una generale perdita di credibilità della classe politica e dei suoi meccanismi di riproduzione, si è associata alla partecipazione di una composizione sociale diversificata, espressione di una profonda trasformazione della società e del modo di vivere la politica, la partecipazione, il dissenso. Il divieto, da parte del Ministero degli Interni e della questura della capitale, di portare l’acampada sotto i palazzi della casta ha rappresentato un gesto di chiusura e arroganza che ha determinato l’anomalia che ha accompagnato l’avvicinamento e lo sviluppo della giornata del 15 ottobre. Con una scelta insensata, il comitato organizzatore ha deciso di accettare questa imposizione, rinunciando a circondare la casta e preferendo convogliare la manifestazione altrove, allestendo un programma costituito da una serie di comizi. È inutile – per tutti – nascondere che questa scelta è stata sbagliata, apparendo incomprensibile, oltre che autoreferenziale, alla stragrande maggioranza dei partecipanti alla manifestazione.
Il cartello degli organizzatori non aveva la forza politica e la rappresentatività necessarie per imporre all’indignazione italiana una deviazione dal sentimento e dalle pratiche della globalrevolution. Lo si è visto nella partecipazione residuale all’assemblea di Via Nazionale indetta dagli organizzatori il 29, così come nella presenza di massa, il 30, agli spezzoni metropolitani, precari e antagonisti che li hanno preceduti in corteo. Non riteniamo che sulle azioni prodotte in Via Cavour da gruppi di manifestanti, di diverso orientamento e dinamiche di affinità, debba concentrarsi la nostra analisi. È tuttavia chiaro che incendiare automobili lungo il percorso di una manifestazione di massa, ben sapendo che la stragrande maggioranza dei presenti è del tutto contraria a un simile atto, significa esprimere un disprezzo profondo per il corteo, attraverso un gesto che non conduce a nessuna prospettiva di allargamento del consenso e di produzione di conflitto sociale. Episodi simili hanno mostrato che l’autoreferenzialità è ben distribuita tra i soggetti politici tradizionali del movimento italiano, siano essi orientati a un avanguardismo senza seguaci o alla deriva istituzionale, e non è in grado, ad ora, di interpretare la ricchezza e le potenzialità dei soggetti che si stanno affacciando sulla scena del Mediterraneo e più in generale del pianeta. L’assenza di una prospettiva condivisa nel movimento, unita alla tensione causata dalla decisione di lasciarsi alle spalle il nemico, anziché raggiungerlo, ha favorito ulteriori dinamiche scompositive nella manifestazione.
La rivolta di Piazza San Giovanni e delle vie limitrofe, al contrario, ha rappresentato il momento ricompositivo, conflittuale, espressione dell’irrappresentabilità di una componente a vocazione maggioritaria nel corteo. Rivolta, si badi, non semplice resistenza: perché se a tutte e tutti coloro che hanno resistito è parso atto dovuto difendere la manifestazione, è innegabile che i numeri e l’entusiasmo di chi si scontrava con la polizia, o di chi rifiutava di abbandonare la piazza agli idranti e ai caroselli, esprimevano una rabbia accumulata in anni di sfruttamento di settori giovani e precari, di umiliazione delle donne, di restrizione degli spazi culturali e politici nel nostro paese, di peggioramento delle condizioni di reddito e di vita. Una rabbia che avrebbe voluto avere come obiettivo il ceto politico di Montecitorio e che, per una sorte ironica ma istruttiva, ha semmai reso impossibile la kermesse di Piazza San Giovanni. Serve a poco, ora, cercare responsabili in questa o quell’altra area di movimento o attivare guerre di bandierina; occorrerebbe, semmai, concentrarsi sulla lettura di una composizione sociale abbastanza ampia e complessa da rendere possibile quanto accaduto.
Già il 14 dicembre, in un contesto differente, una parte del movimento studentesco visse come un problema l’emergere di una volontà di delegittimazione di massa, in piazza, del governo e del sistema dei partiti, salvo poi operarne un recupero tardivo e ambiguo. Allora l’errore fu non comprendere le indicazioni e non impegnarsi a decifrare la tendenza segnalata da quella giornata: una tendenza che parlava dei giovani, e di tutto il paese. Si preferì consumare la rottura unilaterale del movimento studentesco in nome di una svolta riformista che i soggetti metropolitani dell’oggi non conoscono e non possono comprendere. A che serve, allora, lisciare dalla parte del pelo l’altra composizione sociale del 15 ottobre, quel ceto medio impoverito, spesso politicamente impreparato e facile preda di pruriti legalitari, che inorridisce di fronte alla rabbia di San Giovanni? Non sarebbe più utile rendersi conto che tanto quel ceto medio quanto la massa precaria che ha affrontato le forze dell’ordine possiedono potenzialità soggettive che vanno al di là dei programmi dai ceti politici di movimento maturati sul G8 di Genova? Queste due componenti sociali, queste due sensibilità diverse e a volte opposte, devono parlarsi, comprendersi come settori in trasformazione di un soggetto sociale globale che vede, qui come altrove, l’immiserimento del reddito e l’indebitamento a vita uniti alla compressione degli spazi e dei tempi liberi dal lavoro.
A questo, e non ad altro, servono le soggettività politiche di movimento in questo paese: a produrre allargamento della composizione del dissenso nei territori, a generalizzare le istanze di lotta, a creare momenti di sintesi e di rottura, in avanti. Non servono a combattere per l’egemonia fine a sé stessa, per una poltroncina in parlamento, per ottenere due consiglieri comunali qua e là. Nell’esprimere solidarietà incondizionata alle arrestate e agli arrestati, che erano con noi nella ribellione di San Giovanni, rilanciamo l’appello a coltivare l’indignazione, a promuovere la discussione, la mobilitazione e la progettualità del dopo 15 ottobre nelle scuole, nei quartieri, tra i precari e i migranti, nei territori in lotta contro la devastazione ambientale. I soggetti in grado di produrre trasformazione non sono nel “movimento” come sommatoria di aree o, peggio, di inclinazioni ideologiche. Occorre interrogare i soggetti, osservare, compiere ancora una volta un passo nella direzione dell’inchiesta, della domanda, perché le risposte vengono dall’esperienza, e persino i leaderini più saccenti, qui, rischiano di apparire ingenui e frastornati. Non c’è vittoria dei movimenti sociali senza autonomia dei movimenti, là dove l’autonomia non è un gruppo, non è un partito, non è un’ideologia né un’area politica di ieri o di oggi: è un progetto, un’idea, una tendenza, un’assenza, qualcosa a venire. Il 15 ottobre ha scontato la negazione dell’autonomia decisionale e politica dell’indignazione italiana e precaria: un rimosso che continuerà a tornare a galla, fino a quando non ci renderemo conto che compito di tutte e tutti è, semmai, farne una strategia.

NETWORK ANTAGONISTA TORINESE

CSOA ASKATASUNA – CSA MURAZZI – COLLETTIVO UNIVERSITARIO AUTONOMO – KOLLETTIVO STUDENTI AUTORGANIZZATI

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