Val Susa. Fare i conti con l’incendio
Per giorni abbiamo guardato con dolore e rabbia le immagini terribili degli incendi che devastavano la Valle di Susa. Ora, a fiamme infine domate, restano quelle dei danni che i roghi hanno causato: si parla di migliaia di ettari bruciati, cui si aggiungono quelli di vaste altre zone del Piemonte e della Lombardia colpite dagli incendi.
Per giorni all’oscuramento mediatico dei principali mezzi d’informazione ha fatto da contraltare il lavoro di diffusione e il tam-tam dal basso dei valsusini, che in anni di lotta contro l’alta velocità hanno sviluppato anticorpi forti contro un certo tipo di informazione mainstream, sempre pronta a portare in prima pagina la Valle di Susa quando si tratta di incensare gli interessi e le ragioni della grande opera inutile, molto meno nel raccontare quanto stava accadendo tra le fiamme.
Fiamme che erano ancora alte quando gli avvoltoi hanno iniziato a volteggiare sulla Valle di Susa. Il primo è stato il commissario per la Torino-Lione Paolo Foietta, che senza vergogna ha proposto ai comuni colpiti dagli incendi di destinare una parte dei fondi delle compensazioni del Tav agli interventi di ripristino e di prevenzione del territorio dopo i roghi. In altre parole, subordinare la messa in sicurezza della Valsusa alla costruzione di un’opera contro cui quella stessa valle si batte con fierezza da decenni. Le parole di Foietta suonano particolarmente odiose in un paese in cui la gestione disastrosa di ogni tragedia ambientale (dai terremoti, alle alluvioni, agli incendi) ci ricorda costantemente che l’unica grande opera di cui avremmo bisogno è la messa in sicurezza di tutto il territorio. Operazione che invece, secondo il commissario per la Torino-Lione (e non solo lui…), non merita risorse proprie, che tuttalpiù possono essere stornate dalle mancette elargite dal governo (e sempre rifiutate dal movimento No Tav) per “compensare” un’opera inutile e devastante, che non farebbe altro che aggravare ulteriormente lo stato di un territorio già messo duramente alla prova dalla cementificazione selvaggia e la sua capacità di resistere alle calamità ambientali.
La proposta di Foietta ha così aperto la strada per il corteo di sciacalli che nei giorni successivi abbiamo visto sfilare sulle ceneri ancora fumanti della Valle: ci sono stati i post dell’immancabile Esposito che invocava l’arrivo dell’esercito (come se in un territorio iper-militarizzato come la Valsusa fosse quello a mancare), le foto di gruppo di Chiamparino, Prefetto e ministro Minniti intenti a darsi grandi pacche sulle spalle mentre assicuravano di star facendo tutto il possibile e infine gli articoli di qualche pennivendolo che – con il sedere ben al caldo in redazione – non ha perso l’occasione per azionare la macchina del fango sui No Tav.
Mentre questo ignobile teatrino andava in scena, lontano dai riflettori vigili del fuoco, volontari dell’Aib e tanti valsusini hanno lottato per giorni contro le fiamme, ognuno mettendo a disposizione le proprie competenze e il proprio tempo per arginare il disastro. Mentre le istituzioni e i mezzi d’informazione indugiavano anche solo sul riconoscere la vastità del problema, l’attenzione al territorio e le reti di solidarietà sedimentati da decenni di lotta contro l’alta velocità hanno portato tanti e tante ad attivarsi immediatamente e con umiltà.
Gli eventi di queste settimane mettono al centro ancora una volta una questione tanto semplice quanto fondamentale: l’uso che viene fatto della ricchezza che produciamo e il modello di sviluppo che ne sta alla base. Non è retorico ricordare che mentre fiumi di denaro pubblico vengono versati nel bancomat del Tav, i vigili del fuoco sono stati costretti a operare con turni lunghissimi tra scarsità di mezzi e risorse. O che nel 2013 uno degli ultimi provvedimenti del governo Monti ha portato al dimezzamento della flotta anticendio di Canadair, mentre una voce di spesa che non conosce mai tagli sotto governi di ogni colore è quella per i caccia da guerra F35. O ancora che la più recente legge Madia ha riorganizzato (al ribasso) la gestione degli incendi, ripartendo il lavoro tradizionalmente affidato alla forestale tra vigili del fuoco e carabinieri (sic…). La lista sarebbe lunga e ognuna di queste scelte implica precise responsabilità politiche. Se oggi la Valsusa tira finalmente il fiato dopo dieci giorni di inferno, non lo deve certo ai signori del Tav o alle strette di mano tra Chiamparino e Minniti.
Ma non c’è solo questo. Quale che sia stata la dinamica dei roghi è innegabile che le condizioni climatiche hanno funzionato da funesto moltiplicatore delle fiamme: non si tratta, però, di una sfortunata combinazione di aspetti “eccezionali”, quanto piuttosto di situazioni con le quali saremo costretti sempre più spesso a fare i conti. Per anni – anche complice un dibattito sul tema dominato dai tecnicismi o piegato su toni moralizzanti – ci siamo adagiati sull’idea che gli effetti del cambiamento climatico avrebbero riguardato un futuro dai contorni sfumati e non la nostra quotidianità. Gli incendi degli ultimi giorni o il bollettino ormai costante sull’aria irrespirabile di molte città del nord Italia (per fare due esempi su tutti) mostrano tutta l’inconsistenza delle soluzioni tampone improntate all’emergenza adottate finora dalla politica e ci ricordano che questo tema ci interrogherà con crescente urgenza.
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