[Rompere il ricatto] Il lavoro sociale e le variabili di genere e classe: per una critica alla norma di autonomia ed emancipazione
Con l’avvicinarsi all’8 marzo vorremmo portare un breve contributo di approfondimento che possa essere una riflessione e un’analisi utile quando ci si riferisce ai mestieri nell’ambito dei servizi educativi e socio-assistenziali.
Ci interessa in questo senso evidenziare lo stretto legame che tiene insieme le variabili di genere e di classe nello specifico caso del rapporto che si instaura tra professionisti erogatori di svariati servizi e utenza. Nel fare queste riflessioni partiamo da un lato dalla lettura del libro di Francoise Verges Un féminisme décoloniale e dall’altro, dall’esperienza e dal portato delle lotte per la costruzione di un vivere dignitoso nei quartiere popolari delle nostre città e per l’accesso ai servizi, alla casa, alla salute. È interessante partire dalla cornice interpretativa del libro poichè ci permette di contestualizzare come storicamente si siano venute a creare le condizioni percui a svolgere determinati lavori siano per lo più donne, riferendoci ai lavori di cura, di riproduzione sociale, di formazione e, più in generale, della macro area dei servizi in cui sia dal lato dell’offerta sia dal lato della domanda è notevole la specificità di genere.
Secondo Verges, il femminismo da lei definito “civilisationnel”, ossia un femminismo che si autoconsegna una missione civilizzatrice, dunque bianco, borghese e fondamentalmente intriso di eurocentrismo e neoliberalismo, è ciò che ha prodotto delle rivendicazioni nella sfera dei diritti, nello specifico nella ricerca delle pari opportunità lavorative per le donne, che si sono avverati come discriminanti sulla linea della razza e della classe e che hanno limitato la potenzialità di rottura della lotta delle donne nel mondo. Questo tipo di rivendicazioni ha portato a una progressiva inclusione della donna all’interno della sfera della produzione del valore facendo evidente selezione di chi poteva accedere a determinate sfere di potere e riconoscimento sociale e chi non avrebbe potuto perchè povere o razzizzate. Ciò ha implicato una parallela assunzione da parte delle donne di posti di lavoro tipicamente femminilizzati, non per naturale predisposizione, ma perchè non vi è stata un’effettiva rottura dei ruoli di genere imposti e delle categorie di genere essenzializzanti. Il risultato è stato una progressiva integrazione delle donne al mondo della cura e della riproduzione sociale e in generale nell’ambito dei servizi alla persona.
In questo testo vorremmo indagare cosa questo comporta, quali dinamiche di relazione si instaurano, quali categorie vengono messe in atto e quindi quali conseguenze materiali determina l’incrocio di genere e classe. Nel lavoro delle assistenti sociali il pregiudizio di genere e classe è particolarmente evidente. In alcun modo vorremmo che questo tipo di analisi potesse essere intesa come un attacco a queste figure professionali, pensiamo però sia una riflessione utile a darci degli strumenti nelle lotte che portiamo avanti. È interessante soffermarsi su questo proprio perchè anche chi in qualche modo esercita una sorta di potere e privilegio consegnatole dalla posizione di classe è allo stesso tempo donna, probabilmente madre, lavoratrice e molte altre cose. Questa contraddizione di genere si palesa in questo mestiere così come nell’ambito della formazione, nelle modalità di relazione che spesso si instaurano tra insegnanti, madri e servizi territoriali per bambini in difficoltà, per esempio. Ciò che sarebbe auspicabile, in un orizzonte di lotta comune, sarebbe la costruzione di una solidarietà possibile che individui il problema nel funzionamento sistematicamente distorto di questo tipo di servizi, nella mancanza di fondi, nella limitazione del margine di azione delle figure professionali. Per il momento l’analisi di come avviene questo tipo di relazione speriamo possa dotarci di strumenti utili nel coglierne le contraddizioni.
I modelli e le rappresentazioni di genere di cui si fanno promotrici i professionisti nei confronti degli utenti sono socialmente situate, ne influenzano lo sguardo e evidentemente implicano un’azione conseguente ad esso. In questo tipo di servizi la norma di autonomia è qualcosa di proclamato e conclamato come il cavallo di battaglia di ogni progetto: la costruzione dell’autonomia per il soggetto considerato vulnerabile è la priorità, è indissolubilmente connessa alle possibilità di emancipazione individuate come tali anch’esse a partire da uno sguardo totalmente intriso di posizionamenti di classe. Emanciparsi significa trovare un lavoro, essere capaci di occuparsi dei figli e essere in grado di separarsi da un marito potenzialmente violento. Questo tipo di aspettative di genere sono strettamente legate alla posizione di classe di chi assume il ruolo di indicare la via per l’autonomia alle donne che si rivolgono ai servizi; questo tipo di modello di genere della donna indipendente, in carriera possibilmente, determinata nelle sue scelte rispetto alla sua salute sessuale, è tipicamente situato nell’ethos delle classi medie-superiori. Questo ideale di emancipazione riposa ed è possibile solo nel momento in cui si riferisce a una concezione di autonomia inevitabilmente legata alle condizioni e a uno stile di vita ben precisi. Esso è ciò che viene offerto alle donne in cerca di sostegno economico e psicologico, ciò implica però che per poterlo praticare ci siano le possibilità di accesso a risorse economiche e culturali di cui non per forza si dispone. Questo passaggio presuppone che alla solidarietà di genere che si può instaurare tra assistente sociale e madre che vi si rivolge si crea una distanza di classe difficilmente colmabile soprattutto perchè questa distanza ha delle implicazioni materiali nelle scelte degli interventi da predisporre. Le decisioni che vengono prese dai servizi nei confronti delle famiglie o delle donne sole che vi si rivolgono hanno degli effetti reali, dalla decisione di effettuare una segnalazione o meno nei casi di maltrattamenti dei figli, al decidere se ci sono le condizioni o meno per occuparsene, o decidere dove deve vivere una donna che vorrebbe allontanarsi da un convivente violento ma che non ne ha le possibilità materiali.
La conseguenza di questa relazione tra professionista e utente assume le forme di un ricatto in quanto la donna in cerca di aiuto deve dare prova di impegnarsi secondo quei canali e attraverso quei mezzi decisi dalle assistenti sociali sulla base della loro rappresentazione di classe, in questo senso molto spesso le donne che scelgono di intraprendere dei percorsi di inclusione, integrazione e emancipazione di genere devono mostrare gratitudine perchè le si è data la possibilità di salvarsi. In realtà, questo tipo di relazione si traduce in una dinamica di inquadramento, di disciplinamento e controllo che va a influire nella vita delle persone con delle conseguenze legali ben precise. Non da ultimo, si produce la tendenza, se le utenti non sono in grado di agire secondo le aspettative e secondo i canoni stabiliti, di inserire in categorie psicologizzanti queste donne, qualificandole come depresse, indisponibili e senza mezzi. Si costruisce dunque un vero e proprio giudizio di genere in quanto questo tipo di categorie psicologiche assumono la loro legittimità sulla base di pregiudizi di genere, ossia come se la predisposizione all’essere passive o servizievoli fossero caratteristiche intrinsecamente femminili. Questo atteggiamento giudicante, inoltre, permette di facilitare il lavoro in quanto vengono omesse totalmente le difficoltà e il peso delle loro condizioni materiali di vita ma si ricorre ad altri mezzi, probabilmente inadeguati alla situazione specifica. Il rischio è che l’autonomia che ci si aspetta dalle donne delle classi popolari riguardi solamente la capacità di proteggere i figli e la decisione di separarsi in casi di violenze, la norma dell’autonomia femminile diventa dunque un vincolo e la sua conseguenza è la compassione, l’aspettativa di riprodurre un modello familistico e morale borghese, la dominazione di classe e una forma di relazione che produce dipendenza e controllo.
L’elaborazione teorica di questi concetti è stata possibile con il supporto di alcune considerazioni di Delphine Serre, sociologa, ricercatrice nel campo del lavoro sociale e insegnante all’università di Paris I.
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