Bologna: Lungimiranza dei disertori e ip(p)ocrisia dei generali
Sembra un’altra epoca, una stagione lontana un abisso di giorni, eventi, colpi di stato, attentati, burkini e terremoti. Eppure appena 7 mesi sono passati da quando, annunciata un’imminente missione italiana in Libia, decidemmo di andare a contestare il professore dell’Unibo Angelo Panebianco che, lo ricordiamo (come un cimelio dalla preistoria), fece allora la propria apologia della guerra, auspicando e promuovendo dalle colonne del Corriere della Sera quell’intervento militare. Non tanto o solamente contro di lui, quanto per, attraverso lui, aprire un problema (che fino a quel momento in effetti non si poneva) attorno all’oscurantismo, al silenzio dei media in merito ai molteplici fronti aperti e al loro scopo. Porre la guerra come pubblica sì, ma nella sua efferatezza e crudeltà reali, nella sua natura e finalità reali, misurate soprattutto sulla pelle di milioni di morti, e sullo sperpero di soldi, di miliardi di euro che qui come altrove a ben altro servirebbero. Da disertori immediati, senza credere alla maschera dell’antiterrorismo, esprimemmo chiara opposizione a quella missione, alla propaganda contingente che se ne faceva in Università per bocca del Panebianco, e più in generale – questo era lo scopo precipuo – per bloccare, o alludere a bloccare, la produzione e la riproduzione di sapere bellico, del soliloquio del potere.
Eppure allora fummo tacciati di violenza ed arroganza. Perché no, non era vero che era in corso la preparazione di un intervento militare, perché no, non era vero che altrimenti il tutto sarebbe accaduto nel più totale (o quasi) silenzio-assenso della stampa nazionale, perché no, non era vero in fondo che la riproduzione del sapere non è un terreno neutro, ma la sede di uno scontro, che, banalmente, le parole pesano.
Eppure allora il mantra accusatorio, contro di noi s’intende, fu quasi unanime e partecipatissimo, scomodò illustri pensatori affossati nella loro comoda poltrona ottocentesca, tutt’intorno si creò una cintura di forza che volle occultare la nostra voce come uno spiffero dal vaso di Pandora: eravamo noi il male del mondo.
Ma tant’è. Qualche giorno fa in parlamento è stato approvato l’intervento in Libia. La missione si chiama Ippocrate (sì, come il padre della medicina) perché i funamboli retori di regime così la illustrano: Serraj chiede medici per curare i soldati di Tripoli in lotta contro l’Isis, si deve assicurare loro protezione, perciò al pacchetto sono stati aggiunti 200 parà, è dunque una missione umanitaria, medico-militare! Se non fosse che il ribaltamento (a volte tragicamente carnevalesco) è cifra di questo intorno della Storia che diciamo contemporaneo, sarebbe da prorompere in serie risate per tanto grottesco. Ma di nuovo: tant’è! Jerry rincorre Tom e questo è il ventunesimo secolo!
Della ragione però ce ne facciamo ben poco, anzi! Quando la ragione è l’intuizione della prossimità di morti e sofferenze avremmo preferito avere torto. Morti e sofferenze perpetrate dalle potenze occidentali per interessi di profitto, per il controllo, strategico, dei territori nord-africani e medio-orientali.
Ciò detto (e a maggior titolo) opporsi alla guerra è ancora un imperativo, l’opposizione sociale alla guerra un programma politico attuale. Ma abbiamo bisogno di dar forza a quel ‘sociale’, di indicare i colpevoli avendo, da questa parte del dito, la forza storicamente determinata delle lotte. Come rendere riconoscibile il nemico interno, dargli corpo, tessere le fila di un discorso politico che sia in grado di collocare e far emergere il generale dal particolare, che sappia estendere vertenze, far saltare equilibri e cortocircuitare un meccanismo complessivo di gestione (interna ed esterna) del potere? Questa crediamo sia una scommessa su cui puntare.
da: Univ-Aut
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