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La #paura fa novanta

Una paura in particolare merita riflessione, quella di apparire – nel confronto con le innovazioni di lotta spagnole – come l’unico paese in cui perdurano ‘i toni violenti’ di un passato vicino al Medioevo. Allora forse la paura più grande di tutte, che racchiude tutte le altre, è quella di rendersi conto che un’epoca è finita: il belpaese non è più l’ultimo del primo mondo, ma il candidato primo del secondo. Si riducono le distanze immaginifiche, corre la paura di essere sul punto di accostare il dissestato battello greco, di essere tremendamente ed emotivamente vicini alla Tunisia, al Marocco, all’Egitto… (Che poi, non abbiamo passato l’ultimo scorcio di 2011 a ripeterci: facciamo come in Tunisia, come in Grecia, come qui e come lì?!; brucia il timore quasi coloniale del ‘lì è normale che succeda, ma qui da noi no!’).

Per anni sociologi, politici, leader studenteschi o sindacali di ogni sorta, hanno scritto articoli, rilasciato interviste, ricevuto scrosci di applausi nelle assemblee, paventando il fantasma dell’insubordinazione, salvo poi non tradurre ciò in pratica. Bene, quei giorni stanno forse arrivando, una grossa minoranza rumorosa ormai non crede più nelle ricette di vecchi leader della sinistra, così come un’altra fetta ancora più grossa osserva, ascolta, aspetta ‘l’indignazione che non c’è’. Il #15oct romano ne è stata – parzialmente – la rappresentazione: un corteo che decidono di non far andare verso Montecitorio o quel che – politicamente – poteva significare ed essere, con qualche d’uno che si dedica ad azioni spontaneistiche a volte discutibili, per poi andare a chiudere con la resistenza di piazza San Giovanni; ‘sembrava Beirut’ ha detto qualcuno su Twitter, e invece no, era la capitale d’Italia, solo qualche giorno fa.

Nuovi attori sono arrivati sulla scena e scompaginano il copione, insieme ad altri, sono quei precari che abbiamo incontrato dentro i cortei delle scuole contro la riforma Gelmini, sono quei giovani che puliscono cessi preparano cappuccini e rispondono al telefono, sono quegli studenti che lasciano la scuola e non si iscrivono all’università perchè sbattono contro una realtà che – anche nel feticcio della Cultura acquisita – continuerebbe a puzzare di merda. Sono i ragazzi e le ragazze delle nostre città, delle nostre periferie, quelli ‘toccati per primi dalla crisi’ spiegano saccentemente gli editorialisti illuminati, quelli che non hanno mai avuto nessun tipo di partecipazione politica e adesso di colpo urlano ‘ci siamo anche noi e siamo molto più incazzati di voi’, sono quei giovanissimi che sentono parlare di rifiuto del debito e lo associano al mutuo dei genitori, che vedono la banca dove la madre va a pagare la rata come nemico, che hanno sempre visto la polizia nei loro quartieri solo per retate e saltuari pestaggi. Ciò è ovviamente solo una parte di quella composizione ingovernabile, una composizione della quale noi siamo e vogliamo essere parte.

Una volta si diceva, speriamo che oggi ciò non sia finito bandito: ‘La rivoluzione la fa il popolo’. E il popolo, che piaccia o meno, è composto anche da ribelli, studenti, precari, borgatari, ultras, disoccupati, arrabbiati. Il signor Maroni vorrà mica rinchiuderci tutti in una zona rossa, costruendoci attorno un muro stile Gaza? Quel muro lo faremmo cadere, ed oggi abbiamo la necessità di lucidità, di intelligenza, collettiva, per non permettere a nessuno di chiuderci in gabbia come topi.

Poi, avere dubbi è legittimo, porsi delle domande è sacrosanto, avere paura è umano… ma confondere oppresso e oppressore è da coglioni.

Collettivo Universitario Autonomo – Torino
from battleground de los barrios

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