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La società del debito. Quel futuro a portata di mani

Un’intervista con Andrew Ross. Dopo il lungo inverno neoliberale, Occupy Wall Street è solo uno degli episodi di una realtà, quella statunitense, dove la crisi evidenzia l’eclissi del sogno di riscatto incarnato da Barack Obama e le possibilità di una critica al capitalismo contemporaneo.

Can’t Pay, Won’t Pay, Don’t Pay. Già in questo slogan – lanciato dalla campagna «Occupy Student Debt» – c’è la potenza di Occupy Wall Street: individua le radici materiali, lo situa dentro la crisi globale, traccia la composizione, fatta di studenti, precari e lavoratori impoveriti che non ne vogliono pagare i costi, indica obiettivi e forme di lotta. È un grido di battaglia contro la finanziarizzazione della vita lanciato da quello che, almeno simbolicamente, è il ventre della bestia. L’equazione politica – la lotta sul salario sta al capitalismo industriale come la lotta sul debito sta al capitalismo cognitivo – che fino a poco tempo fa appariva come un azzardo teorico di una minoranza radicale si sta semplicemente imponendo con la forza di un pregiudizio popolare. Soprattutto, è incarnata in diffuse pratiche di resistenza che della crisi costituiscono la radice soggettiva. Allora, se in soli pochi mesi tanto si è detto e scritto su Occupy Wall Street, è anche per queste ragioni, oltre che per la sua nota lucidità interpretativa ed efficacia di analisi, che rivestono una particolare importanza le valutazioni di Andrew Ross. Docente della New York University, noto per il suo impegno militante, autore di numerosi saggi che sapziano dai cosiddetti cultural studies – No Respect: Intellectuals and Popular Culture; Strange Weather: Culture, Science, and Technology in the Age of Limits; The Chicago Gangster Theory of Life: Nature’s Debt to Society – alle trasformazioni del lavoro nel capitalismo contemporaneo – No-Collar: The Humane Workplace and Its Hidden Costs; Fast Boat to China: Corporate Flight and the Consequences of Free Trade; Nice Work if You Can Get it: Life and Labor in Precarious Times – Ross è infatti tra i promotori della campagna «Occupy Student Debt».

Come è nata Occupy Wall Street, o per meglio dire quali ne sono state le condizioni di possibilità e come sta cambiando il contesto americano?

Gli eventi politici spontanei sono sempre «possibili», non è facile prevedere quando e dove avranno presa. Penso che se Occupy fosse stato un anno o sei mesi prima, non sarebbe decollato nello stesso modo. Un fattore da considerare è la tardività degli Stati Uniti: quando, ci siamo chiesti tutti, le mobilitazioni globali si sarebbero diffuse nelle città americane? Un altro fattore è che, con l’occupazione di Wall Street, il disgusto popolare per il processo politico negli Stati Uniti ha raggiunto una massa critica. Ricordo che solo qualche settimana prima che l’occupazione cominciasse, Doug Henwood e Liza Featherstone hanno fatto circolare un invito tra le persone di sinistra di New York per contribuire a un convegno dal titolo «Why Fucking Bother?» («chi cazzo se ne frega?»). Si proponeva di incanalare o mitigare un condiviso senso di disperazione sulla possibilità che qui accadesse qualcosa. Nondimeno, c’è stato un cambiamento a 180 gradi del morale negli ultimi mesi. Io vivo negli Stati Uniti da trent’anni e non ho mai visto qualcosa comparabile alla forza o al senso del destino di cui questo movimento è portatore. Quei trent’anni sono appartenuti a Wall Street, i prossimi trenta possono e devono appartenere a noi se Occupy mantiene la sua energia e creatività. Il mio coinvolgimento nel movimento non è atipico. È cominciato come residente (vivo non distante da Zuccotti Park), poi c’è stata una rapida transizione all’esserne partecipante, nelle prime manifestazioni di massa e nei gruppi di lavoro su «Empowerment and Education», e infine a diventare organizzatore nella nostra campagna «Occupy Student Debt». Come molti altri che conosco, è stato estremamente facile essere attratti nel movimento, che è come ci si dovrebbe sentire in un movimento.

Occupy Wall Street è stato spesso presentato come evento imprevedibile. Tuttavia, ci sono molte lotte che hanno preceduto e preparato il terreno di questo movimento: per citare solo un paio di esempi, a New York ci sono stati negli ultimi anni gli importanti scioperi dei graduate students e dei lavoratori dei trasporti. Pensi che ci sia un processo di sedimentazione di soggettività e pratiche politiche nella genealogia di questo movimento, oppure prevalgono gli elementi di cesura e completa novità?

Ci sono molti affluenti che sono sgorgati nel fiume di Occupy. Il movimento per la giustizia globale è il più importante. Sul lato del lavoro, penso che la capacità dei sindacati metropolitani di abbracciare il movimento del lavoro universitario costituisca uno sfondo importante. Per quanto riguarda gli elementi nuovi, certamente la crescente consapevolezza rispetto al sistema del debito è un fattore centrale. Resistere alla servitù del debito ha costituito una forma di vita nei paesi del Sud globale negli ultimi trent’anni. Ora le conseguenze del vivere nella trappola del debito hanno colpito i paesi del Nord.

Qual è la composizione del movimento, e quali sono le sue forme di organizzazione e comunicazione?

 All’inizio la composizione degli occupanti era piuttosto circoscritta: la maggior parte istruiti, bianchi, giovani, molti di loro si sono fatti le ossa nel movimento per la giustizia globale, per altri questa è la prima esperienza politica. Ora, tuttavia, la composizione è molto differente: i sindacati del settore pubblico sono sempre più coinvolti, c’è un insieme pienamente intergenerazionale di soggetti, il gruppo di lavoro su «People of Color» è una presenza importante. Il processo di consenso dell’assemblea generale è il dna organizzativo del movimento, e sta cominciando a penetrare in parti della società civile tradizionale. Per esempio, alcune delle scuole superiori della città hanno rimpiazzato le loro forme di rappresentanza studentesca con le modalità orizzontali dell’assemblea generale. Si è dimostrata essere un modello virale di norme culturali. Poiché ogni gruppo può creare la propria assemblea generale (ce ne sono molte in giro per New York), è una struttura organizzativa che incoraggia e genera autonomia. Così, la natura «faccia a faccia» di questa forma decisionale completa il diffuso utilizzo dei social media volto a disseminare l’informazione. In realtà, direi che il bilanciamento tra gli incontri fisici e l’uso dei social media è un elemento chiave.

Puoi spiegare come è nata la campagna «Occupy Student Debt»?

Fin dall’inizio il tormento del debito studentesco è stata una costante di Occupy Wall Street e delle occupazioni di altre città. George Caffentzis, Silvia Federici e io abbiamo fatto degli incontri sul debito durante l’occupazione di Zuccotti Park. Abbiamo invitato i partecipanti a formare un gruppo per costruire un’iniziativa di azione che legasse la questione del debito studentesco al sistema dell’istruzione superiore nel suo complesso. L’assunto centrale è che i college e le università americane dipendono in misura crescente dalla schiavitù del debito a cui sono costrette le persone che invece dovrebbero servire. Così abbiamo creato una campagna che richiama i nostri principi politici (l’atto di rifiuto, la minaccia di uno sciopero del debito, la rivendicazione di un giubileo del debito). È progettata per dare ai debitori la possibilità di agire collettivamente piuttosto che soffrire il tormento e l’umiliazione del debito e del default privato. Fondamentalmente la campagna chiede a coloro ai rifiutanti di bloccare il pagamento del prestito quando si sarà raggiunta la quota di un milione di sottoscrizioni, ed è legato a quattro principi: tutte le università private devono essere gratuite, i prestiti studenteschi devono essere sganciati dalle tasse che vanno abolite, le università private devono aprire i loro libri contabili, il debito esistente deve essere cancellato. Si può vedere il sito: www.occupystudentdebtcampaign.org.

La lotta contro il debito è presentata come una pratica di riappropriazione della ricchezza sociale. Da questo punto di vista, potremmo dire che è un movimento costituente. Cosa ne pensi?

 Concordo. La nostra campagna è un’iniziativa di azione e non una lista di domande, poiché condividiamo l’ethos di Occupy Wall Street per cui le domande non possono essere rappresentate dal sistema politico attuale, sotto la funesta influenza dei dollari delle aziende. Le azioni che puntano a riappropriarsi della ricchezza e del potere non sono solo in sé potenzianti, ma anche – come dite – costituenti di un nuovo modello di cultura politica. La maggior parte dei partecipanti si stanno rendendo conto di una trasformazione soggettiva: il linguaggio è spesso di innocenza radicale, un sintomo manifesto del sorgere di una nuova «struttura del sentire», per dirla con le parole del teorico inglese Raymond Williams. Certamente la classe politica tenterà di cooptarne alcuni, e non la vedo come una risposta inattesa: non si può erigere un confine non poroso tra un movimento e l’establishment.

Quali sono i rapporti tra le union sindacali e il movimento?

I sindacati degli impiegati pubblici non ha solo sostenuto, ma ha anche pienamente partecipato al movimento. La solidarietà mostrata per gli occupanti di Zuccotti Park da parte dei lavoratori del vicino cantiere del World Trade Center è stato particolarmente importante. I dirigenti sindacali e ancor di più i militanti della base hanno espresso in modo molto esplicito il loro rispetto per i successi di Occupy Wall Street nell’accumulare attenzione e generare impatto politico. Si è così creato un gruppo sul lavoro proprio attorno alle questioni del lavoro.

E quali sono i rapporti tra Occupy Wall Street e l’università come luogo di produzione e di conflitto?

La fase di «Occupy Colleges» del movimento è appena iniziata, ma è il suo naturale prossimo passo. Gli sgomberi di Zuccotti Park coincidono con questi movimenti dentro le università, a New York, in California e altrove. A New York c’è ogni settimana un’assemblea generale degli studenti dell’intera metropoli, continui appuntamenti della People’s University alla NYU e alla New School, una serie di iniziative e manifestazione studentesche di massa, incluso anche un giorno di sciopero. Recentemente molta attenzione si è concentrata sulle lotte contro l’aumento delle tasse alla City University of New York (Cuny). Un tempo gratuita (è stata una delle università della classe operaia più grandi del mondo), le tasse sono state per la prima volta imposte agli studenti del Cuny all’alba della crisi fiscale del 1976. Ciò è generalmente visto come il primo colpo che in questo paese il neoliberalismo ha inferto alla formazione pubblica. È un motivo in più per guardare al Cuny, in questo momento altamente simbolico, come spazio per rovesciare la situazione. Ora il movimento Occupy Colleges sta costruendo una rete nazionale. Alcuni presidenti di università, in particolare alla New School, si sono mostrati disponibili, altri sono stati gravemente danneggiati dal loro ricorso alla repressione poliziesca contro la libertà di parola. Come per Occupy in generale, ogni volta che la polizia agita i manganelli o sgombera violentemente manifestanti pacifici, ciò rovina il supporto pubblico per le autorità e fa crescere la simpatia per il movimento. Forse è questa, più di ogni altra cosa, la prova dell’impatto di successo del movimento.

Da Il Manifesto

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