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Morti di skills. Il lavoro è repressione

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Condividiamo questa interessante analisi a firma Osservatorio Repressione sulle mobilitazioni studentesche e l’alternanza scuola-lavoro… Buona lettura!

Di fronte all’ennesima morte sul lavoro ci saremmo aspettati fiumi di retorica stucchevole, eppure, dopo la morte di Lorenzo Parelli, gli studenti scesi in strada hanno adottato una posizione inamovibile, e dalla significativa impronta politica: l’impianto scuola-mondo del lavoro è da rimuovere. A questo messaggio la polizia ha risposto forte e chiaro: nulla oggi potrà essere messo in discussione. 

Se dapprincipio è stata una trave a T da circa 150 kg a colpire Lorenzo Parelli, mentre quest’ultimo forniva gratuitamente la propria forza-lavoro nell’ambito di un percorso di apprendistato, nei giorni a seguire – come se la tragica morte di Lorenzo non fosse bastata – a consolidare la logica brutale dello sfruttamento sui luoghi di lavoro sono state le manganellate inflitte ai corpi indignati e solidali degli studenti scesi in piazza negli scorsi giorni. Questi ultimi, in reazione all’inaccettabile morte di un proprio compagno, hanno tentato di attaccare simbolicamente ciò che in Italia è rappresentato dal MIUR, cioè quel mondo della scuola che concepisce i percorsi formativi della scuola secondaria superiore come luoghi nei quali “fabbricare” giovani compatibili alle logiche della deflazione salariale, del lavoro non retribuito e dei contratti a tempo determinato. Le piazze di questi giorni, da Roma a Torino, ci raccontano di una generazione che si rifiuta di essere sacrificata sull’altare del lavoro.

Appare evidente come le dinamiche e i rischi connessi alla pandemia siano stati sfruttati dalle strutture di potere in vista di un rafforzamento dei propri apparati, attraverso la messa in campo di strumenti sempre più invasivi e aggressivi rispetto agli spazi di dissenso. Il potenziale destituente che i giovani studenti sono stati in grado di esprimere è il virus di cui le classi dirigenti hanno realmente paura: un apparato statuale effettivamente preoccupato si fa aggressivo di fronte a un rumore significativo, seppur piccolo nelle sue dimensioni. Ma la morte di uno studente apprendista, l’ennesima, è ciò che legittimamente dovrebbe indurci a mettere in discussione il modello educativo e sociale dominante. Le morti sul lavoro – omicidi – sono una tipologia di morte che connota una classe e delle soggettività specifiche. Esse hanno dei responsabili e nascono dentro l’organizzazione e la divisione del lavoro. La famiglia, la scuola, le accademie e i luoghi di lavoro palesano un rifiuto al dialogo e alla messa in discussione del concetto di lavoro nel capitalismo, concependo la morte e l’invalidità da lavoro come dei rischi accettabili per poter sopravvivere dentro i meccanismi del mercato del lavoro. Frequentare obbligatoriamente un periodo di stage in azienda è un modo per acquisire e conservare le famose “competenze” o “skills”, anche se una specifica azienda presenta rischi oggettivi e appartiene a settori con elevata incidenza infortunistica.

Il fenomeno sociale e di classe delle morti sul lavoro è un indicatore delle condizioni di vita e sfruttamento della forza lavoro all’interno del sistema capitalista (di Stato e non). Attingendo ai vari rapporti prodotti da enti pubblici e associazioni sull’andamento degli infortuni (vedi rapporto 2021 Anmil) e delle malattie professionali e incrociando questi indici con quelli prodotti dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro sulla regolarità delle aziende italiane, emerge una realtà produttiva basata sullo sfruttamento della forza lavoro, sull’aggiramento di norme e sul continuo ripiego alle sovvenzioni economiche pubbliche. Gli investimenti, spesso a carico della spesa pubblica, sono rivolti all’ottimizzazione dei processi produttivi, all’introduzione di tecnologie per aumentare produttività e controllo, ma quasi nulla è destinato alle voci salute e sicurezza. Insufficienti sono le norme prevenzionistiche, pensate su modelli anacronistici, risalenti a una realtà economico-produttiva novecentesca, i quali non prevedono reali organi di rappresentanza dei lavoratori. Tali modelli dovrebbero essere anzitutto incentrati sulla tematica della salute, della nocività e della sicurezza, e, in secondo luogo, dovrebbero prevedere lo smantellamento di tutti i dispositivi disciplinanti che ruotano attorno ai concetti di “obbligo di fedeltà” e di “subordinazione”. 

Il discioglimento della politica nella tecnica applicata all’implementazione di un modello economico e sociale ordoliberista, descritta da Luciano Gallino in “Finanzcapitalismo”, ha raggiunto il suo punto più alto e sta rivelando con evidenza i suoi limiti e la sua arroganza. Non è più possibile continuare a ripetere la favoletta dello sviluppo neutrale, nel quale a giovarne è l’intera collettività, poiché, in realtà, a farne le spese sono sempre le lavoratrici e i lavoratori, per di più giovanissimi, come nel caso di Lorenzo.  

Il modello economico-produttivo vigente non è più sostenibile negli attuali luoghi di lavoro. Di conseguenza non lo si può certo immaginare – nei suoi criteri e nelle sue dinamiche –  un modello estendibile agli altri campi della vita sociale, nella misura in cui esso prevede, e dunque ammette, il rischio di morire durante uno stage. E così siamo dinnanzi all’ennesima giovane vita schiacciata sotto il peso del lavoro e dell’educazione capitalista.

Abbiamo assistito, durante la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che si è tenuta a Glasgow nel mese di Novembre, all’apertura di Mario Draghi verso il movimento giovanile internazionale “Friday for Future”. Il Presidente del Consiglio ha dichiarato, nel suo intervento alla presentazione del Manifesto di Confindustria su “Lavoro ed Energia per una transizione sostenibile”, che la sfida della transizione ecologica è una questione esistenziale. Greta Thunberg ha abbandonato i lavori per tornare a scuola, disertando l’incontro con Barack Obama e denunciando il “bla bla bla”. Ma cosa cambia così radicalmente la posizione e la postura di Mario Draghi verso i giovani e il loro bisogno di prendere parola su un evento che ha colpito e riguardato le loro esistenze se appunto – una volta dismesso l’abito polite del nonno comprensivo di fronte alle telecamere – permette che degli studenti siano picchiati e manganellati nelle strade della nostra Repubblica e delle nostre città solo per aver avuto il coraggio di “esistere”? Dove sta la coerenza, la verità, il vero volto di questo Governo?  

La tragica ingiustizia consumatasi nello stabilimento Burimec di Lauzacco, in provincia di Udine, ha radici lontane e fa parte della scia delle tante tragedie sfiorate in questi anni durante gli stage svolti dagli studenti, dagli apprendisti, dai lavoratori e dalle lavoratrici. Il processo di accelerazione della precarizzazione del lavoro, chiamato riforma del lavoro, nota come Legge Biagi (Legge n.30-2003 e relativo D.Lgs. n. 276-2003) necessitava di una complementare riforma del concetto di scuola e formazione, in modo da creare processi di formazione in cui l’individuo fosse pronto ad affrontare il modello del mercato del lavoro che si stava prospettando in quegli anni. In quest’ottica nasceva la Legge n.53/2003, nota come riforma Moratti, la quale prevedeva che dal compimento del quindicesimo anno di età i diplomi e le qualifiche potessero essere conseguiti in alternanza scuola-lavoro o attraverso l’apprendistato. Questo modello, a prescindere dalla composizione dei governi che si sono succeduti, ha visto in seguito il suo riaffermarsi nella cosiddetta Alternanza scuola-lavoro, introdotta dalla Riforma Buona Scuola del governo Renzi. 

Per essere precisi, Lorenzo era uno studente di un centro di formazione professionale e frequentava un percorso con indirizzo meccanico che prevedeva un monte ore maggiorato rispetto al percorso canonico previsto per le scuole. Questa tipologia di apprendistato rientra in ciò che viene definito “sistema duale”, un regime di stage e apprendistato rafforzato in termini di ore di frequenza in azienda, una delle forme della nota Alternanza scuola – lavoro, che dal 2018 prende il nome di “Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento (PCTO)”. La normativa attualmente in vigore, infatti, stabilisce in 210 ore la durata minima triennale dei PCTO negli istituti professionali, 150 nei tecnici e 90 nei licei, ma non abolisce la loro obbligatorietàné il loro essere condizione per l’ammissione agli esami di Stato. I percorsi – secondo il Miur – vengono invece inquadrati nel contesto più ampio dell’intera progettazione didattica, chiarendo che non possono essere considerati come un’esperienza occasionale di applicazione in contesti esterni dei saperi scolastici, ma costituiscono un aspetto fondamentale del piano di studio.

La mentalità e la visione del lavoro degli industriali e degli imprenditori non solo permeano i piani di studio e i modelli di riferimento educativi nella scuola, ma condizionano, a suon di leggi e dispositivi coatti, la struttura dell’intero orizzonte scuola. Questo processo, in corso da decenni, ha visto anche in passato, soprattutto durante l’inasprirsi della crisi economico-finanziaria del 2008, una vivace e determinata opposizione sociale e culturale. Oggi, però, con l’intensificarsi della repressione subdola e chirurgica delle forme di dissidenza, non dovremmo lasciare soli e isolati gli studenti che hanno compreso, sulla loro pelle, come si consuma l’inganno che, dalla famiglia alla scuola, passando per le accademie (università e mondo della ricerca), propone uno scenario congeniale ai soli interessi del capitale. Del “dopo” di cui ci parlano intravediamo solo il presente fatto di sfruttamento, precarietà e repressione.

Solo riannettendo al centro del discorso sulla mobilitazione il concetto di lavoro e delle sue ingiustizie, del reddito, della libertà di sapere e della costruzione di spazi e vite desiderabili si può, con determinazione, organizzare un’opposizione a questo scenario. Liberarsi dalla repressione nelle scuole è la strada per desiderare un orizzonte altro, totalmente differente da quello in cui si è relegati a individui atomici, sorvegliati e sorveglianti di una realtà ingannevole, lontana dai bisogni reali delle soggettività di classe. Non vogliamo assistere a una generazione che cade sotto i colpi dello sfruttamento e del ricatto continui: corpi assemblati nei macchinari, menti consumate dall’organizzazione estrattiva del valore. Non c’è violenza poliziesca che possa arrestare questo processo: rompere il ricatto del lavoro nella scuola è un imperativo! 

Osservatorio Repressione

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