New York: la Columbia University si rimette l’elmetto
Nel 2005, dopo il tentativo di alcuni docenti di adeguare la posizione di Columbia al vecchio/nuovo clima patriottico e guerrafondaio del dopo-2001, il senato universitario confermò il rifiuto dei ROTC, ma con una motivazione più debole: l’esercito USA applicava la politica del “don’t ask, don’t tell” ai gay e alle lesbiche che facevano parte dell’esercito, imponendo il silenzio sulle proprie inclinazioni, a meno che non fossero eterosessuali. In questo modo, un gay dichiarato avrebbe potuto essere esplulso dall’esercito. Questa discriminazione cozzava con i principi di uguaglianza e di “politically correct” di Columbia, che perciò rifiutò di rivedere i suoi rapporti con i militari.
Dopo l’avvento al potere di Obama, che esplicitamente aveva dichiarato di avversare la politica dell’esercito sugli omosessuali, il dibattito si è riaperto, e infatti il presidente nero ha firmato un decreto nel dicembre 2010, in cui si impone all’esercito di non discriminare gay e lesbiche, anche qualora facciano outing sulle loro scelte sessuali. La fazione pro-ROTC ha potuto così sostenere che ogni ragione per mantenere il bando del 1968 era svanita, ed avviare una discussione ufficiale per la sua reintroduzione. Questo è ciò che accade quando, anziché attaccare l’esercito per la sua funzione, lo si attacca per questioni di contorno.
Il documento dell’università cita la reintroduzione del ROTC soltanto di passaggio, contenendo un’infinità di nuovi accordi di collaborazione con l’esercito. In questi mesi molti studenti hanno fatto sentire la propria voce contro questa possibilità, anche attraverso assemblee molto nutrite: il 17 gennaio la fazione pro-esercito ha invitato ad intervenire Anthony Maschek, veterano di 28 anni appena iscrittosi alla prestigiosa università, colpito 11 volte dalle pallottole della resistenza irachena a Kirkuk, nel 2008, e per questo sommerso di bigiotteria dai suoi superiori. Molti studenti, però, non apprezzarono né la sua presenza, né i suoi discorsi, del tipo: “Non importa se siete contro la guerra, né contro la violenza: c’è della gente laggiù, che cospira per uccidervi!”. Sommerso di boati e fischi, e di cori che lo definivano razzista, Maschek si sentì, come ebbe a scrivere il New York Post, un “eroe non gradito”.
Nonostante gli studenti più intelligenti non abbiano lesinato gli sforzi affinché l’università non tornasse a collaborare attivamente con l’esercito, il senato accademico ha fatto la sua scelta, diversa, il 1 aprile. Pesa, certamente, anche la passività, l’indifferenza o il pieno appoggio di quelle decine di migliaia di altri studenti che concepiscono la vita come una vicenda tutta fatta di conformismo e sottomissione: se sono statunitensi, sanno che conviene non avere strani grilli della testa; se sono stranieri, come molti studenti di Columbia, credono di individuare negli USA ancora la potenza dominante, e dunque quella da appoggiare, o preferiscono non mettere a rischio una potenziale green card. In effetti, come ad oggi avviene ovunque, forte è tra gli studenti del campus la polarizzazione, che rende difficile la discussione e sempre più alta la tensione attorno ai temi politici. Quali che siano le responsabilità, una cosa è certa: la scelta di Columbia fa dell’ateneo newyorkese un’istituzione direttamente coinvolta nelle attività militari degli Stati Uniti, attualmente impegnati sui fronti afghano, pakistano, iracheno (anche se in forma ridotta) e libico. Da questa come dall’altra parte dell’oceano, sapere e ricerca non sono innocenti, quando si impegnano, in modo organizzato, al fianco di chi, assieme a oppressione e sfruttamento, semina la morte.
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