Quattro studenti da sette mesi ai domiciliari. Lo Stato che odia i giovani
Di seguito riportiamo una riflessione studentesca a più di sette mesi dagli arresti di quattro studenti per il corteo del 18 febbraio a Torino. Buona lettura!
Dall’11 maggio ormai, quattro studenti si trovano agli arresti domiciliari in regime preventivo, imputati in un processo in cui vengono ritenuti i responsabili dei tafferugli avvenuti sotto la sede di Confindustria il 18 febbraio scorso.
Abbiamo avuto modo, noi e tanti dei soggetti che hanno attraversato quella piazza, di dire molto sul corteo studentesco del 18 febbraio, Confindustria è diventata la rappresentazione plastica della nostra controparte, quel soggetto che è il fiero portavoce degli interessi dei potenti che indisturbati si sono fatti spazio nei tavoli decisionali della Scuola, piegandola sempre di più verso un cieco asservimento agli interessi del mercato del lavoro e dell’economia del profitto sfrenato. Quello che abbiamo sempre affermato è che proprio in questa scala di priorità risiede la responsabilità delle morti in alternanza di Lorenzo, Giuseppe e Giuliano. Per questo motivo è stato dato un segnale forte il 18 febbraio. Perché volevamo farla finita con i tentativi ipocriti di imbonirci che provenivano dalle varie cariche istituzionali che andavano esprimendosi sulla nostra mobilitazione. Non cercavamo una pacca sulla spalla; stavamo lottando perché agli assassini dei nostri coetanei non fosse più permesso agire liberamente compromettendo le nostre vite, cosa che invece governi e ministri da destra a sinistra hanno fatto in modo che accadesse con ogni mezzo a loro disposizione.
Questo è importante dirlo e ripeterlo poiché, invece, all’interno delle aule di tribunale, non viene dato un contesto politico alle singole condotte che vengono giudicate solamente come uno sterile esercizio di violenza fine a sé stessa. Però questo è falso e dobbiamo pretendere che invece venga rimesso al centro il contesto che ha prodotto quei comportamenti e cosa questi esprimono.
Con il rischio di essere ridondanti, riaccenniamo anche che solo poche settimane prima centinaia di giovani furono brutalmente picchiati da un corposo dispiegamento di agenti in tenuta antisommossa, il cui scopo era quello di impedire il movimento di quello che avrebbe dovuto essere un corteo.
Quindi insomma, questi sono gli elementi che le accuse sterili e arbitrarie della procura torinese non vogliono riconoscere, con l’evidente intento di far gravare sulle spalle di quattro giovanissimi studenti il peso giuridico di azioni che sono state invece frutto di un’elaborazione collettiva ricca di vivaci intelligenze che in quella profonda spaccatura ci vedevano la possibilità di parlare di utopie concrete.
Sono passati ormai sette mesi di arresti per Francesco, Emiliano, Jacopo e Sara e le vicissitudini giudiziarie proseguono. Come sappiamo, in questa città si intraprendono creativi esperimenti dentro le aule dei tribunali.
Allo scadere del sesto mese di detenzione, i ragazzi sarebbero usciti dai domiciliari per motivi burocratici, dal momento che parliamo sempre di arresti preventivi senza l’esecuzione di una condanna penale a seguito di una sentenza, se non fosse che mantenere quattro ventenni rinchiusi per aver protestato è un’assoluta priorità. Dunque, dal cappello magico della macchina giuridica è stato ripescato un “Giudizio Immediato”. Il Giudizio Immediato rientra tra le modalità processuali dei cosiddetti “Giudizi speciali”, delle deviazioni dalla norma che in casi molto specifici possono essere applicati agli imputati su richiesta del PM o che l’imputato stesso può richiedere. In questo caso la richiesta è ovviamente partita dalla pubblica accusa. Questo procedimento è applicabile qualora ci fossero delle prove assolutamente chiare che indirizzerebbero alla certa colpevolezza degli imputati e fa sì che si salti l’udienza preliminare per passare immediatamente alla fase dibattimentale e ovviamente annulla ogni termine di scadenza per le misure cautelari inflitte a Francesco, Emiliano, Jacopo e Sara. In sostanza, si è ricorso ad un cavillo burocratico per impedire a dei ragazzi giovanissimi e incensurati accusati di un reato di bassa gravità, di riprendere una vita libera dopo sei mesi di detenzione. La situazione all’oggi potrebbe sboccarsi nei primi giorni di febbraio con lo svolgersi della prima udienza. Nel frattempo, si resta in attesa.
Possiamo definire “Giustizia” questo gioco sadico?
Considerando questo fatto, non vorremmo che si schiacciasse il discorso sulla repressione in modo circoscritto. Vorremmo si inserisse questo pezzo in più ampio piano che guarda in avanti. Vogliamo divincolarci da una posizione che guarda solo all’aspetto persecutorio della vicenda o che normalizza un rapporto delle parti basato sullo sterile concetto di “legalità”; ci interessa di più smascherare e ostacolare l’uso e il consumo che viene fatto della “legge”, plasmata a piacimento sulla base di ciò che richiede una bastonata secca poiché disturba il quieto vivere dell’élite politica e/o finanziaria della nazione.
Reprimere, spaventare, isolare, stigmatizzare: questo è il lavoro che svolgono la polizia, i tribunali e i penitenziari supportati da una buona propaganda vuota di contenuti che i mezzi di informazione vomitano nelle orecchie delle persone.
Anche in questo caso specifico risulta chiaro l’intento intimidatorio e insieme disgregativo che questa inchiesta si porta con sé. Per quanto la pubblica accusa richieda un giudizio sui fatti delittuosi al di fuori dal loro contesto, appare evidente che l’intento iniziale dell’operazione di polizia fosse, invece, precisamente quello di decomprimere il portato politico che le mobilitazioni stavano accrescendo.
Non si tratta solamente di “colpirne uno per educarne cento”, questo è sicuramente un pezzo ma non è tutto. Perché se guardiamo indietro, dalle cariche di Piazza Arbarello in avanti, il posizionamento della polizia è sempre stato in funzione di eliminare una possibilità di ricomposizione.
Le morti di Lorenzo prima e di Giuseppe e Giuliano poi, hanno alzato di molto il tiro; la contraddizione che si è aperta avrebbe potuto costituire una voragine incolmabile, un irrisolto che tutt’ora rimane tale anche se con meno entusiasmo. Perché questo è il vero volto della ferocia di questo sistema che sul suo altare sacrifica qualunque vita sia necessaria ad assicurare la sua egemonia. E quando la maschera cade in modo così ostentato è difficile tenere le briglie a una generazione che da perdere ha ben poco.
Il dato forse più interessante che abbiamo potuto cogliere delle mobilitazioni dell’anno passato è stata l’apertura della possibilità di costruire soggettivazione individuale e collettiva in modo incredibilmente dispiegato. Il fenomeno delle occupazioni, i processi di costruzione dei cortei e il livello altissimo dell’analisi collettiva è stato qualcosa di molto tangibile e che stava dando il via ad una trasformazione delle forme di attivismo che abbiamo conosciuto fino ad allora. Questo è stato ciò che si è voluto distruggere. A partire dalle dichiarazioni della Lamorgese, allora ministra degli Interni, che affermò con sicurezza che le violenze di piazza Arbarello fossero responsabilità di un piccolo gruppo di “infiltrati”, fino agli arresti, la strategia adottata è stata precisamente quella del “divide et impera”. Per ridare dignità a quel percorso politico che è stato linfa vitale per decine di migliaia di giovani in tutta Italia e per provare a non stare al gioco dei buoni e dei cattivi, dobbiamo rimandare al mittente le accuse che ricadono sulle teste degli studenti che stanno pagando il protagonismo ad un moto per una scuola nuova, per un sistema sociale che non si cibi delle nostre vite, per un presente e un futuro più giusti. Dobbiamo riprendere in mano ciò che questi arresti miravano a distruggere, un’organizzazione di studenti dispiegata, radicata e con le idee chiare.
Contemporaneamente abbiamo il dovere anche di accendere i riflettori sulla crudeltà di un sistema giudiziario che quotidianamente tiene nella sua morsa moltissime persone e moltissimi giovani a cui viene sottratta la possibilità di un’esistenza decente in questo sistema. Dobbiamo ricordarci i costi umani che vengono pagati da coloro che si trovano ristretti, privati delle proprie libertà, additati come una feccia da estirpare alla faccia della favoletta sulla “rieducazione e il reinserimento”.
In quale mondo quattro ragazzi di vent’anni verrebbero rieducati essendo privati di ogni contatto umano, della possibilità di svolgere la stessa vita dei propri coetanei, di poter studiare regolarmente, di lavorare, di avere rapporti familiari sani? Come se non bastasse tutto questo, Emiliano e Jacopo sono attualmente ancora detenuti al massimo regime restrittivo con braccialetto elettronico e divieto di comunicazione con l’esterno. Questo sempre perché l’intento è rieducare, ovviamente.
Noi parliamo di ciò che ci è più vicino, come gli arresti dei nostri amici, però dobbiamo essere coscienti che intorno a noi accadono cose tremende legate alle carceri e ai processi penali che spesso e volentieri restano nel buco nero dell’esclusione, della marginalità e dell’abbandono. È nota la situazione delle carceri italiane, anche grazie alle rivolte e le iniziative di protesta che a più riprese si sono date dal primo Covid in avanti. Il sovraffollamento, le violenze e le torture, i detenuti versano in condizioni inumane e molti in regime cautelare, in attesa di processo. Il numero dei suicidi avvenuti in galera è vertiginosamente aumentato e coinvolge persone sempre più giovani, anche detenute da poco tempo. Di pochi giorni fa è la notizia della denuncia di una violenza sessuale avvenuta nel carcere minorile Beccaria di Milano ad opera dei due concellini di un ragazzo diciassettenne lì detenuto. Un fatto di questa gravità ci dice con tremenda chiarezza che questo sistema di “Giustizia” è tutto sbagliato. Che è urgente interrompere questo turbinio di violenza.
A Torino, 1 detenuto su 10 ha meno di ventiquattro anni ed è recluso per reati minori; tutto ciò che le autorità sanno dirci in merito è che stanno preparando percorsi di “recupero delle devianze”, una retorica che esprime con chiarezza l’incapacità di comprendere la gravità di questo fare distopico “dell’olio di ricino e manganello”, non si prova minimamente a interrogarsi sull’insorgere di un disagio generalizzato dettato non solo da un impoverimento progressivo, dalla costante sottrazione di servizi alla comunità, da una scuola sempre più classista e discriminatoria nei confronti di chi non dimostra gli standard richiesti, ma anche da un annichilimento profondo che è dettato dall’incertezza del domani e dalla finzione su cui si regge il mondo odierno.
Il vortice nel quale siamo ingabbiati genera ansia, instabilità, insicurezza e isolamento e l’unica via di uscita è incontrarci, stringere legami sulla base del nostro rifiuto della miseria e perché no, iniziare a organizzarci insieme. Fare ciò che fa tanta paura alla polizia e a chi la comanda. Perché è solo in questo modo che possiamo rompere le catene.
Le intelligenze che sperano di incasellare negli sterili parametri di una società triste, fondata sullo sfruttamento, devono cercare spazi altri in cui mettere a frutto le proprie capacità a servizio di quelli che sono i nostri bisogni autonomi, di felicità collettiva, di un benessere per tutti e tutte. E questo è possibile farlo solo aprendo i nostri spazi di azione e contrapposizione. Le occupazioni, i collettivi scolastici, le assemblee cittadine, i cortei di questo ultimo anno lo hanno dimostrato ed è da lì che bisogna ripartire.
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