Retorica sessista contro il movimento No Tav
L’ultima settimana è stata teatro di una possente campagna mediatica volta a delegittimare e criminalizzare il movimento notav. Si sono spesi fiumi d’inchiostro per divulgare improbabili distorsioni della cronaca, per avanzare analisi patetiche e per fare da cassa di risonanza alle dichiarazioni di governo. Ognuno di questi articoli ha un portato di violenza insopportabile – quello che solo la menzogna sa avere. Un articolo in particolare, tuttavia, esibisce una sorta di surplus di violenza – quello che solo il sessismo sa esercitare attraverso il suo immaginario. Ci si riferisce all’articolo dal titolo No Tav: le donne sconfitte della Val Susa, comparso online un paio di giorni fa sul supplemento femminile del Corriere della sera.
Ci sono numerosi argomenti per replicare a questo articolo. Il primo è che narra il falso: le donne della Valsusa sono tutte ai loro posti, magari con qualche osso rotto dai manganelli della polizia, ma ci sono. Anche le donne che vanno in Valsusa, pur non essendoci nate, sono tutte ai loro posti. A volte tra le belle montagne piemontesi, a volte nei presidi delle città in cui vivono, più o meno lontane dalla valle. Non ci sono accenti che appartengono più o meno al movimento No Tav: il dialetto di Giaveno e quello palermitano sono entrambi lingue No Tav. L’esperanto di questo movimento meraviglioso non seziona la lotta nelle sue frange legittime e illegittime (come piacerebbe alla stampa d’ogni colore), ma ne testimonia semplicemente la trasversalità, ricchezza e potenza. Chiunque si chieda cosa spinga una ragazza romana a mettere in valigia i suoi migliori scarponi, fare migliaia di kilometri e andare in Valsusa può porsi una domanda semplicissima: chi pagherà la tav? La risposta è tutti e tutte. Il mistero della partecipazione extra-locale alle mobilitazioni è presto svelato.
Il secondo motivo per replicare all’articolo di Io donna è che è un testo sessista. In primis nella struttura: la finzione dell’inchiesta maschera un utilizzo in realtà violento delle esperienze personali. Con le vite delle donne è facile fare pornografia – come in questo articolo – dove si cerca di tratteggiare in forma caricaturale lo spazio dell’intimità. Nella narrazione proposta compaiono rossori, imbarazzi e pudori: la dimensione del corporeo viene così saccheggiata da un’ermeneutica violenta che costringe la donna – anche là dove protagonista – entro una figura debole e goffa. Compiaciuto il cronista s’intenerisce di fronte alla scena di quelle donne “ingenue e tenere” che lui pretende di descrivere: ecco il dispositivo sessista che viviseziona il corpo femminile al fine di eccitare o intenerire. E se la figura insopportabile delle “candide” donne Valsusine proposta nell’articolo allude alla seconda delle due opzioni, la sua contro-figura non può che essere un’immagine fortemente erotizzata. Ed ecco allora che compare una giovane militante: “bellissima, un volto da attrice e sguardo penetrante” (nome e cognome ripetuti per l’ennesima volta tra le righe di un articolo spazzatura). Fissata questa dicotomia, ci si può sbizzarrire con gli stereotipi.
Stando alla narrazione del Corriere le goffe e tenere donne della Valle, tutte pacifiche e materne, trovano sempre nella famiglia e nei problemi ad essa connessi entro la comunità i motivi delle loro lotte. Queste donne lottano per i figli, per le scuole e per gli ospedali, per i giovani che devono crescere e i vecchi che devono accudire. Anche all’interno della lotta il loro ruolo è soprattutto di cura: preparano té caldi, intrattengono i bambini, cucinano, etc.. etc… Immagine rassicurante di una figura tradizionalmente materna a cui si contrappone quella che dovrebbe essere la sua negazione. Una figura femminile violenta, attraente, sradicata e degenerata che incombe sulla purezza dell’autentica Valsusina. A parte il carattere fittizio – ridicolo se non rappresentasse un gesto di violenza verso tutte le donne del movimento – delle due caratterizzazioni, è importante denunciare il sessismo insito nel tentativo di frammentazione della soggettività femminile.
Il problema sta nell’imposizione dell’aut aut. Le donne reali eccedono la dicotomia e si riconoscono tra loro a partire da differenze che sono il prodotto di esperienze reali, di percorsi di vita, etc… etc… Le donne reali sanno anche che le dicotomie vanno spezzate in primis nella propria vita per non rischiare che ogni scelta divenga un’alternativa secca. Quando l’articolo del Corriere descrive le donne Valsusine che scompaiono in modo proporzionale all’avanzata di altre donne non fa altro che esorcizzare l’idea che le donne Notav siano riuscite a sfuggire una logica discorsiva binaria (e questa sarebbe una tra le tante vittorie del movimento!). L’articolo cerca addirittura di risospingerle nell’ombra, di convincerle che lo spazio adatto per le loro battaglie è quello privato e domestico. Cerca di sottrarre le donne alla lotta e la lotta alle donne mentre, in verità, sta solo a queste ultime decidere per cosa e come lottare. Non ci sono contenuti e pratiche pregiudizialmente contrari: una madre barricadera è un ossimoro solo per una cultura sessista! In Valle ci sono solo donne in carne ed ossa, quelle altre quelle cattive, sono fantasmi agitati per spaventare chi ormai è già diventato troppo grande per avere paura.
Laboratorio Sguardi Sui Generis
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