“Lettera ai compagni” di Cesare Battisti
Pubblichiamo questa lettera di Cesare Battisti rivolta ai compagni perché crediamo che sia importante continuare a discutere di questa vicenda che è stata masticata, risputata dai media e completamente dimenticata. Pensiamo che sia necessario prendere atto del contesto in cui la “confessione” di Battisti ha avuto luogo, dopo anni di costruzione del capro espiatorio, dopo l’autoassoluzione complessiva della società italiana sulle vicende degli anni settanta, con la volontà, ancora una volta, di esorcizzarli per negare che siano mai esistiti. Il vomitevole teatrino forcaiolo con cui la sua cattura è stata accolta in Italia, in un’Italia senza storia, è indice di quanto l’immagine da “ultimo giapponese” che gli è stata incollata addosso fosse unicamente funzionale alla narrazione dominante. Che poi, dopo tutto, Cesare Battisti è solo un proletario che ha scelto di opporsi al capitale con gli strumenti e i mezzi che aveva a disposizione e che, per un amaro incrocio di destini, è stato catapultato nel proscenio della propaganda capitalista senza tradire nessuno se non forse l’idea che molti si erano fatti di lui. Dissociato da che? Da un processo politico e sociale chiuso da quasi trent’anni? Altre furono le dissociazioni e in tempi ben più tumultuosi. Un’abiura fuori dal tempo, è, per lo meno, molto più umana di chi da oppresso si è fatto carnefice.
Da Carmilla
Mi si chiede, era veramente necessario assumermi le responsabilità politiche e penali, insomma la dichiarazione al procuratore di Milano? Mi chiedo, quale necessità muove coloro che si pongono questa domanda? Perché, se io sapessi esattamente cosa ci si aspettava da me, mi sarebbe allora più facile calarmi al loro posto e magari trovarci qualche buona ragione, che sicuramente non manca, per dubitare dell’opportunità o meno della mia decisione.
Ma quanti di questi, a cui vorrei sinceramente rispondere, non solo perché lo meritano, ma anche perché lo considero un dovere di compagno, possono veramente calarsi al mio posto? Ossia, come faccio a spiegare cosa mi succede adesso, senza poter dire che l’oggi è il risultato accumulato negli ultimi quarant’anni, soprattutto da febbraio 2004 in Francia fino al 23 marzo a Oristano?
Prendiamo solo questi ultimi quindici anni. Sono stati un inferno continuo, tra anni di carcere, arresti rocamboleschi, enorme dispendio di energia personale e di forze solidali, in una persecuzione spietata, senza riserve e mai vista prima. Mi ha visto abbandonare più volte casa, famiglia, ripudiato nella pubblica via, scacciato dai posti di lavoro, quando ne trovavo uno, a causa di un’opinione pubblica avvelenata da una propaganda di media senza scrupoli, con lo scopo di disarcionarmi ogni volta che riuscivo ad aggrapparmi a una speranza di vita normale. Lasciamo perdere i gravi problemi finanziari, rischierei di essere patetico.
Per questo, mi chiedo, sarà possibile che con una persecuzione simile, che ha superato in mezzi e durata l’immaginabile, è possibile, dico io, che quelle buone teste di compagni lungimiranti siano riuscite a resistere all’avvelenamento della disinformazione, che non si siano lasciate attingere anche loro, inconsciamente, in maniera moderata, come il martello che a forza di battere ha ragione del chiodo, da una tale organizzazione scientifica della menzogna? Perché, se così non fosse, come spiegare allora che alcuni compagni pretendano da me esattamente quello che da me si aspettano l’opinione pubblica, leggi, istituzioni?
Il “mito Battisti” è stato creato per abbatterlo, questo si capisce ed ha una logica feroce; quello che non si capisce è il “mito” ripreso anche dai compagni, un buon “mito” da sventolare in nome della lotta rivoluzionaria. E succede che poco importa che quel “mito” sia fatto di carne e ossa, che non ne possa più di essere martirizzato – martire da agitare, secondo i gusti, da un lato o dall’altro della barricata.
In fondo, chi avrei realmente danneggiato assumendo le mie responsabilità relative a un processo definitivo, archiviato, demonizzato? Non avrei dovuto dire del fallimento della lotta armata? E perché no? Giacché l’avevo sonoramente dichiarato nel 1981 e ripetuto. C’è qualcuno oggi che può onestamente dire che la lotta armata era da fare, che ne sia valsa la pena? (E non confondiamo Movimento con partiti combattenti). Ho preso questa decisione perché se non smitizzavo il mostro, se non dicevo che sono appena umano, allora sarebbe stato meglio se mi avessero scaraventato subito giù dall’aereo di Stato.
Volete avere un’idea certa su ciò da cui dovevo liberarmi? Ebbene, chiedete pure agli amici di strada, parenti, conoscenti qualunque, colleghi, chiedete loro cosa pensano di Cesare Battisti e avrete la risposta su cosa era che mi toglieva il respiro. Ho confessato senza chiedere una riduzione di pena, è stata anzi la premessa e proprio in questi giorni avete assistito alla conferma dell’ergastolo da parte della Corte d’Assise di Milano, la quale ha grossolanamente legalizzato un sequestro di persona in Bolivia. Ergastolo, tra l’altro, unico al processo PAC!
La domanda da porre sarebbe più concretamente questa: valeva la pena? Sì, indubbiamente (a parte le omissioni che ho lasciato passare al momento della firma, lamento la stanchezza), perché, nonostante il massacro, ho ancora voglia di avere un cervello tutto mio, una sedia e un tavolo per scrivere a voi, alla famiglia e a tutti quelli che ancora vogliono leggere.
Ho scritto d’un sol getto, non farò correzioni e, se incoraggiato, posso raccontare in seguito i retroscena di Ciampino, immagino che i media ci abbiano vomitato su.
Un abbraccio a chi lo vuole.
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